Il marcio e il caos dieci anni dopo
Ci sono editoriali (ma possiamo chiamarli fermo-immagini, riflessioni scaltrite, sintesi folgoranti) che per la loro forza interpretativa conservano nel tempo il pregio della verità e le sembianze del re nudo: oltre le ciarle, le opinioni, le apparenze che scivolano come lacrime di pioggia sui vetri appannati della realtà, escono dai luoghi comuni e si impongono con la potenza descrittiva racchiusa in poche parole. Sono i fiori all’occhiello e il fascino del miglior giornalismo.
Sono passati dieci anni e pochi giorni da quando Antonio Polito pubblicò sul Corriere della Sera un articolo intitolato “Il marcio e il caos”: un affondo impietoso e penetrante su mali secolari che affliggono il nostro Paese, oltre le contingenze ‘hic et nunc’ di un fatto, di un’occasione, di una mera e riduttiva parentesi del momento. Il titolo è quello che riprendo, vale ancora oggi e acquista pregio come il vino d’annata, il tema che affrontava l’editorialista è di quelli che vanno oltre l’empirismo e le contingenze del momento. Come a dire: ci sono dei mali di fondo, delle cancrene che non si riducono a formulette da effetti speciali, come “prima o seconda repubblica”, trascendono persino le appartenenze pseudo-ideologiche che sono spesso contenitori vuoti di idee e di progettualità e colmi invece di slogan e promesse, non si spiegano con le poco convincenti formule mandate a memoria dagli affabulatori e mestieranti del momento: il pregio di chi vi cerca spiegazioni più convincenti come fece Polito è di immaginare il futuro, osservando il presente ma senza dimenticare il passato. Saperlo fare con il dono della sintesi offre opportunità di riflessioni postume perché in quel coagulo di pochi, illuminanti concetti, ci sono derive che a cascata spiegano il resto senza indulgere nella retorica di analisi che ci consegnano dubbi e interrogativi più che risposte.
“Sosteneva Polito” e credo sostenga tuttora che la ciclica narrazione della giustizia a orologeria è qualcosa che prima o poi bisognerebbe chiarire con una indagine statistica promossa dal CSM: il tintinnare di manette che non avremmo più voluto sentire dopo lo tsunami di “mani pulite” ritorna periodicamente ma………. “Più che al disegno intelligente di un deus ex machina che manovra dall'alto le inchieste sembra piuttosto di assistere a un vero e proprio caos organizzato, all'incrociarsi casuale ma micidiale delle tre debolezze del sistema-Italia: una corruzione dilagante, una politica declinante, una giustizia debordante”.
La corruzione è così diffusa che pervade ogni strato e target sociale, “il pizzo, la tangente o la mancia” non sono prerogative della casta politica o imprenditoriale, sono una cancrena diffusa che incontriamo appena oltre la soglia di casa. I comportamenti virtuosi sono eccezioni perché il marcio prevale, dal condominio alle partecipate, dagli enti locali alle nomine, dai concorsi truccati alle raccomandazioni, dagli appalti alle speculazioni, si va oltre i classici da codice penale scoperchiati da tangentopoli- peculato, concussione, malversazione ecc. – truffe, imbrogli e raggiri sono diventati costume sociale prevalente e questo radicamento pervasivo ci spiega perché è giusto invocare un cambiamento morale che riguardi il Paese e non solo la sua classe dirigente.
Sono passati e sepolti i tempi della stretta di mano e della parola data, ora tutto è labile insidioso.
La politica declinante è sotto gli occhi di tutti e tocca i temi della cronaca quotidiana da molti anni a questa parte, come su una sorta di piano inclinato scivoloso senza possibilità di risalita: non è necessario scomodare Max Weber o Zygmunt Bauman o Jurgen Habermas per riannodare i fili dell’etica politica o viceversa evidenziarne i mali. Da molti anni Paese legale e Paese reale sono separati da un gap incolmabile, l’intermediazione sociale sta scomparendo, i cittadini sono privati persino della possibilità di esprimere un voto che consenta di scegliere i migliori anziché i nominati dai capi dei partiti, l’astensionismo elettorale si avvia a superare il numero dei votanti, ciò che comporterà di riscrivere le regole della democrazia rappresentativa. Nel frattempo una miriade infinita di temi si è affacciata all’orizzonte, dalla pandemia alla guerra, dal welfare al lavoro, dalla scuola alla sostenibilità ambientale, dalla digitalizzazione all’emigrazione, alle derive demografiche che entro fine secolo configureranno un nuovo ordine mondiale. Di fronte a tutto questo la politica balbetta e rinvia, il procrastinamento sembra una scelta inevitabile di fronte all’inazione dovuta a mancanza di competenze e all’essenza di assunzione di responsabilità. Mario Draghi ha provato a sintetizzare tre requisiti di cui i decisori politici dovrebbero avere sicuro possesso- la conoscenza, il coraggio e l’umiltà – ma francamente non se ne vede traccia. Tutto è come avvolto in una cortina di mediocrità, promesse, slogan e luoghi comuni, avremmo bisogno dei Padri della Repubblica e ci ritroviamo in larga parte dei mestieranti privi di lungimiranza e visione.
Ad esempio: con quali programmi e uomini ci presenteremo alle Europee del 2024? Eppure la dimensione mondialistica dei problemi sul campo ci riconduce a quella sede istituzionale.
Quanto alla giustizia debordante è chiaro che essa tende a sostituirsi alla politica in declino: laddove le leggi sono incomprensibili o violate è necessaria un’interpretazione giurisprudenziale.
Si aggiunga una coreografia che fa spettacolo e audience, “un sistema mediatico che sempre meno fa differenza tra sospetti e prove”, l’eccitazione popolare che confonde la giustizia con il giustizialismo e – in cauda venenum - la smania di protagonismo che “sempre più proietta le toghe in politica”.
La tripartizione dei poteri era stata una grande intuizione di Montesquieu che ha ispirato la configurazione delle moderne democrazie occidentali: l’impressione è che ci siano tendenze che ci allontanano da quella chiarezza cristallina, verso il caos.