Il libro sospeso per prendersi cura
Ci sono tanti modi per prendersi cura dell’altro. A Napoli, nel quartiere Sanità, quando una persona è particolarmente contenta, invece di pagare un caffè, ne paga due e lascia la seconda tazzina, quella già saldata, per il cliente successivo che si affaccia per chiedere se c’è un “sospeso”. La tradizione, arricchita da molte e varie interpretazioni, si è diffusa in tutta Italia. Per lo scrittore Luciano De Crescenzo è come “offrire un caffè al resto del mondo”. Con la pandemia abbiamo toccato con mano tutte le nostre fragilità. Il virus ha svelato lo stato cagionevole di salute della società e ci ha aperto gli occhi sull’importanza di un sistema sanitario all’altezza. Ci siamo accorti che sono molte le persone che affrontano quotidianamente la malattia o hanno una patologia cronica. Per curare le persone è necessario un approccio a 360 gradi. Non è sufficiente la sola prospettiva medica, ma serve piuttosto una presa in carico corale. In questa Quaresima abbiamo l’opportunità di far entrare in corsia le pagine della letteratura più significative, più belle o più affascinanti.
“Il libro sospeso” è una bella intuizione della Libreria Paoline che l’aveva già sperimentata, con successo, nella Quaresima dello scorso anno, quando i destinatari erano stati i detenuti. Il capitolo 25 del vangelo di Matteo si fa azione. Basta un semplice gesto magari arricchito da una dedica per donare un momento di conforto, per aiutare a riflettere o per strappare un sorriso ai pazienti della Domus (dai reparti di riabilitazione fino all’Hospice) e ai loro familiari. I romanzi penetrano lì dove l’esistenza viene custodita e, con i malati terminali, accompagnata; lì dove la vita è stata sconvolta da inspiegabili accadimenti terreni. Chi ha affrontato o affronta l’esperienza della malattia sa bene quanto siano importanti i piccoli segni di vicinanza. Non è mai troppo tardi per imparare ad amare. Nella sua autobiografia, il cardinale Angelo Scola ha raccontato questo episodio: “Nel corso di una visita pastorale a Venezia, un giorno, mi venne indicato dal parroco un signore più o meno della mia età. Tre settimane prima gli era morto il figlio, un disabile grave, impossibilitato a parlare e a camminare, di cui si era preso cura amorevolmente per oltre 30 anni, assistendolo giorno e notte e confortandolo con la sua costante presenza. L’unico momento in cui si allontanava era la domenica, quando andava a Messa. Davanti a questa persona provai un certo imbarazzo. ‘Dio gliene renderà merito’, farfugliai un po’ stordito. E lui mi rispose con un grande sorriso: ‘Patriarca, guardi che io ho già avuto tutto dal Signore perché mi ha fatto capire che cosa vuol dire amare’”. Alla Domus gli operatori sanitari sono testimoni, nella difficoltà, di questo amore.