Il dono come missione
Il mese missionario di ottobre rischia, almeno per me, di ridursi ad un fugace ricordo dei poveri dei più lontani paesi del mondo, una preghiera, un gesto di carità, accompagnato da un’accorata indignazione per le ingiustizie sociali e un pensiero grato per i tanti missionari che operano il bene. Poi si volta pagina. Arriva novembre, altre ricorrenze, intenzioni di preghiera e giornate da celebrare. E la missione? Oh, lo so che non si è risolta con un mese di sensibilizzazione e preghiera e che c’è gente che continua a morire. Ma io? Ho voltato pagina davvero? O non mi era chiaro il concetto di missione?
Mi imbatto in una figura di donna straordinaria, Annalena Tonelli (1943-2003), nata a Forlì e morta assassinata a due passi dall’ospedale che aveva creato e per cui si spendeva in Somalia. Di lei – fin da giovane totalmente e radicalmente donata a Dio e ai poveri – mi colpisce in particolare il racconto che fa della sua vita, “la sola possibile”. Più volte picchiata, rapita, minacciata, derubata perché schierata contro i soprusi, bianca, cattolica, non sposata, povera, alla stregua degli ultimi con i quali vive, arriva a definire la sua vita “la migliore delle vite possibili. Nella mia vita non c’è rinuncia, non c’è sacrificio. Rido di chi la pensa così. La mia è pura felicità. Chi altro al mondo ha una vita così bella?”. E aggiunge: “So che non mi pentirò mai di aver vissuto così, perché non potrei vivere in modo differente. È un bisogno del mio essere intero vivere così”.
Un bisogno, una certezza, un compiersi dell’esistenza che assume sempre di più il carattere di una chiamata, a cui corrisponde la sola risposta possibile, quella che non ti evita la sofferenza, e tanto meno il tradimento dei tuoi o la morte più violenta, ma ti riempie la vita, ti dona la pace più profonda, quella di sapere di essere nel posto giusto, al momento giusto, a fare la cosa giusta. È un cammino, certo, per noi, come per Annalena, che parte per l’Africa perché, confesserà più tardi, “credevo di non potermi donare completamente rimanendo nel mio Paese. I confini della mia azione mi sembravano così stretti, asfittici. Compresi presto che si può servire e amare dovunque, ma ormai ero in Africa e sentii che era Dio che mi ci aveva portata e lì rimasi nella gioia e nella gratitudine”. Ancora: “Partii decisa a gridare il Vangelo con la vita. 33 anni dopo brucio dal desiderio di continuare a gridarlo così fino alla fine”. Perché non se ne può fare a meno, tanto si è diventati quell’unica e irripetibile Parola che Dio pronuncia con la nostra esistenza. Questa è la nostra missione. Questa è la nostra vocazione.