Il caso Fassino e le contraddizioni della politica
Il recente intervento dell’On.le Piero Fassino che alzandosi nell’emiciclo parlamentare di Montecitorio ha esibito il cedolino del proprio stipendio da Deputato della Repubblica (4718 euro mensili netti) a voler puntualizzare che non si tratta di un emolumento “d’oro” (termine già in uso per le pensioni) ha suscitato più di un commento sulla stampa, attraverso i media e nelle discussioni da bar dei soliti bene informati. In realtà l’On.le Fassino, deputato dal 1994 e più precisamente nelle legislature XII, XIII, XIV, XV, XVI, XVIII, XIX, sapeva bene pronunciando il suo discorso che il totale mensile percepito comprende altre indennità che sono prerogativa dei parlamentari e che non trovano riscontro nelle altre categorie dei dipendenti del pubblico impiego: tra fondi, diarie, compensi, rimborsi ecc pare – per non saper né leggere ne scrivere al pari dei molti lettori di quotidiani che il conto totale l’hanno fatto – che si raggiunga la somma di oltre 11500 euro al mese.
L’on.le Fassino ha una impeccabile ed esemplare carriera politica alle spalle, vanta un alto numero di presenze in aula, è persona proba e integerrima, ha ricoperto numerosi incarichi di Governo e sinceramente credo che quella retribuzione sia per lui meritata.
Il fatto di aver citato solo il cedolino e non tutto il resto può tuttavia aver provocato qualche comprensibile risentimento in chi può contare solo sugli emolumenti risultanti in busta paga e non su altre voci che ne alzano notevolmente l’importo. Tra questi ci sono lavoratori che faticano ad arrivare a fine mese e penso che si siano sentiti umiliati confrontando il proprio stipendio come unica fonte di mantenimento con quello di un onorevole. Per non parlare dei titolari delle cd. “pensioni” sociali e di quelle di invalidità: sono situazioni che hanno giusto attraversato sei o sette legislature registrando molte promesse ma nessun risultato. Viene da chiedersi perché l’On.le Fassino abbia preso la parola per difendere la propria categoria e non - proprio in tema di stipendi, pensioni e in un periodo in cui si discetta intorno all’importo del salario minimo (che gli esperti politici e sindacali quantificano in 9 euro all’ora) e alla sua opportunità – per proporre una commissione d’indagine parlamentare sulla crescente povertà in Italia, anche semplicemente basandosi sui dati del 21° Rapporto della Caritas che presentano i molteplici aspetti di questa condizione di marginalizzazione sociale che interessano e coinvolgono 1 milione 960 mila famiglie, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione).
In piena sintonia con le risultanze delle indagini ISTAT e CENSIS.
Sia ben chiaro, su questo tema non si deve fare demagogia o lasciarsi tentare dal populismo: un parlamentare deve poter contare su una retribuzione adeguata che gli consenta di esercitare la propria funzione in modo indipendente da qualsiasi condizionamento esterno, rispondendo alla propria coscienza e al mandato popolare ricevuto. Senza bisogno di presentare pubbliche scuse.
Ma – ad es. – l’aver diminuito il numero dei parlamentari (da 945 a 600) non ha affatto migliorato la qualità dell’azione politica degli organi legislativi ed il risparmio a conti fatti è stato irrisorio.
Non si doveva cedere alla demagogia della rappresentanza parlamentare, non cambiare Camera o Senato ma deputati e senatori lasciando che venissero eletti liberamente dal popolo attraverso l’esercizio del voto di preferenza, cosa che non è più consentita da anni perché i posti in Parlamento sono blindati dai capi-partito e non vengono votati i migliori ma nominati i più fedeli.
Questo è un grande vulnus per la democrazia e lo è ancora di più per chi – al centro, a destra e a sinistra- da sempre si è autoproclamato paladino delle istanze popolari e degli interessi dei cittadini che ormai sono ridotti a vivere ai margini della società, non potendo partecipare alla designazione dei propri rappresentanti. Se mai, dunque, questo sarebbe stato un tema da sollevare: il gap tra paese legale e paese reale non consiste (solo) su un dato retributivo ma di rappresentanza, di ascolto, di dialogo e di selezione della classe dirigente. Se questo discorso non l’ha fatto ancora nessuno c’è sempre tempo: a cominciare dalle elezioni europee del 2024, fondamentali per capire i destini del vecchio continente nel quadro di relazioni e prove di forza a livello internazionale sempre più complicate e difficili.