I volti della fragilità
Se pensiamo ai profughi, nella nostra mente si affacciano immagini viste centinaia se non migliaia di volte in tv: uomini di colore, su barconi o canotti, in bilico sul bordo, con i giubbotti di salvataggio. Il primo pensiero a cui associamo queste immagini è: ma come faremo a mantenere tutta questa gente? E via via altre domande, spesso connotate da ostilità. Le questioni organizzative e politiche mettono in ombra la situazione psicologica che riguarda queste persone: sono persone traumatizzate, sottoposte a continuo stress, che hanno subito perdite. Innumerevoli perdite. Hanno perso gli affetti: lasciano i familiari più stretti. Hanno una mamma, lasciata là, un padre, fratelli, amici. Qui trovano affetti? Hanno perso le loro radici: cosa salvano della loro cultura e tradizioni, cosa riusciranno a salvare? Le radici creano identità. Hanno perso la casa: forse solo chi è stato alluvionato o terremotato può capire. Non hanno un posto che possano definire casa. Forse, per ben che vada, trovano una dimora. Hanno perso soldi: se mai ne avessero avuti, qui non ne hanno. I soldi danno sicurezza.
Pensiamo a noi: se non avessimo un euro in tasca, riusciremmo a stare tranquilli, pensando a come soddisfare i nostri bisogni primari ed eventuali spese necessarie impreviste, come il dentista o l’auto che ha bisogno del meccanico? Hanno perso cose: forse hanno una sola borsa per contenere tutto ciò che possiedono. Non hanno più il loro letto, una bici, un animale ed altri loro piccoli oggetti. Hanno perso la loro lingua: qui hanno problemi a comunicare, a farsi capire, ad esprimere le loro necessità, ad essere ascoltati. Per non parlare delle donne: a tutto questo, per loro vanno aggiunte le violenze subite durante il viaggio. Gli abusi lasciano segni indelebili, soprattutto se non elaborati, con cui dovranno fare i conti ogni giorno. La situazione che vivono queste persone è fuori dal loro controllo: sono in balia di altri che, a vario titolo, hanno potere su di loro: dicono loro quello che devono o non devono fare. Le conseguenze emotive per ciò che non possiamo controllare sono paura, ansia, depressione. Non hanno certezze, in balia degli eventi, di un futuro del tutto fumoso e ansiogeno. Tutto questo li rende vulnerabili, fragili. La fragilità ha vari volti, non solo quella di Gesù bambino nel presepio. E la fragilità non è sempre così evidente: a volte bisogna andare oltre l’apparenza, oltre l’immediato, oltre l’esplicito, oltre i pregiudizi. Bisogna ascoltare, senza presupporre di sapere già. E per ascoltare davvero, in primis, bisogna fare silenzio. E pensare che l’importante non è solo quanto facciamo, ma come lo facciamo.
@Foto Caritas italiana