Hospice cattolici: luoghi di speranza
Mentre dalla Francia le decisioni della Corte di Cassazione riaprono il dibattito sul fine vita, gli hospice cattolici confermano la loro identità e la loro missione. Prendersi cura del malato che soffre e sa di non poter guarire vuol dire farsi carico di tutta la persona custodendone e accompagnandone la vita, nella sua sacralità e inviolabilità, fino al suo compimento naturale
Mentre dalla Francia le decisioni della Corte di Cassazione riaprono il dibattito sul fine vita, gli hospice cattolici confermano la loro identità e la loro missione. Prendersi cura del malato che soffre e sa di non poter guarire vuol dire farsi carico di tutta la persona custodendone e accompagnandone la vita, nella sua sacralità e inviolabilità, fino al suo compimento naturale. Vuol dire fare i conti con la nostra fragilità e l’umanità che accomuna tutti noi. Vuol dire offrire una risposta competente e amorevole alle paure e al senso di solitudine e angoscia di chi sente avvicinarsi la morte.
Ed è proprio questa la mission degli hospice cattolici: 22 nel nostro Paese - 17 al Nord, 3 al centro e 2 al Sud. Realtà che costituiscono il 10% dei circa 200 hospice presenti in tutta Italia, centri specialistici per le cure palliative introdotte con la legge n. 38 del 15 marzo 2010. Non è casuale che il primo di tutta la rete sia stato fondato a Brescia nel 1987 dalle Ancelle della Carità. A Roma si è tenuto un incontro del tavolo che, per iniziativa dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, riunisce i 22 hospice cattolici. All’ordine del giorno la discussione della prima bozza di un testo che, premette il direttore dell’Ufficio don Massimo Angelelli, dopo un percorso di confronto dovrebbe costituire “un documento identitario degli hospice cattolici contenente linee guida comuni da declinare secondo le realtà e i percorsi delle diverse strutture”. Non si parte da zero, chiarisce, “ma il documento ci servirà da stimolo, per spronarci a crescere in qualità, attenzione e coerenza rispetto ai valori evangelici”. Centrale la formazione spirituale, relazionale e umana degli operatori. Di qui la duplice proposta di Angelelli: appuntamenti formativi dedicati ai cappellani di hospice e giornate formative alle quali potrebbero partecipare due-tre persone di ogni realtà: “Credo avrebbe un’importante valenza motivazionale e di costruzione di relazioni”. “Dobbiamo iniziare a pensare anche alla formazione di medici e infermieri”, aggiunge Fabio Carlotti (Fondazione Don Gnocchi – Firenze).
L’hospice cattolico è chiamato ad essere un luogo che apre alla speranza. In questa affermazione si potrebbe sintetizzare l’identikit di queste strutture delineato da Maria Elena Bellini (Hospice Casa s. Giuseppe Gorlago di Bergamo). “Mai come in prossimità della morte occorre celebrare la vita che deve essere pienamente rispettata, protetta e assistita anche in chi ne vive il naturale concludersi”, afferma. “Una presenza competente e amorevole è la prima cura accanto al morente”. Un prezioso aiuto per “non subire la morte e per trovare speranza nella possibilità di vivere fino all’ultimo istante”. Concorda fra Marco Fabello (Ospedale san Raffaele Arcangelo – Fatebenefratelli, Venezia): “Nessuno dei ricoverati nei nostri hospice ha mai chiesto di morire”. La fase terminale della malattia è spesso il tempo degli interrogativi sulla propria esistenza, sul senso di ciò che si sta vivendo e della ricerca di Dio: l’hospice cattolico deve pertanto rispondere ai bisogni spirituali e religiosi dei pazienti. Di qui la centralità dell’Eucaristia, della preghiera e dei sacramenti. Ma ogni persona ha il diritto di essere accolta nel rispetto della propria fede: per questo occorre garantire un’alta qualità della vita attraverso “servizi rispettosi della propria sfera religiosa, spirituale e culturale”. Particolare attenzione va inoltre rivolta alla famiglia del paziente che va ascoltata, sostenuta e poi accompagnata nell’elaborazione del lutto prendendosi cura anche dei bambini. Essenziale quindi la centralità della persona che deve essere sempre coinvolta nei percorsi di cura e di sollievo dal dolore e aiutata a vivere fino alla fine nel modo più autonomo possibile: il tempo rimasto non è attesa di morte, bensì tempo da colmare di senso e di vita. Al tempo stesso occorre aiutare il malato a riconciliarsi con questioni personali e/o ferite relazionali ancora aperte. L’hospice cattolico è chiamato anche ad essere luogo di dialogo con le comunità locali, aperto alle parrocchie e al volontariato”.