Frigo, innamorato della Costituzione
Nella grande borsa che lo accompagnava Giuseppe Frigo conservava la “Giustizia”, fatta di codici, codicilli, norme, aggiunte, cancellazioni e di tanto buon senso, necessario per comprenderla e applicarla “uguale per tutti”
Nella grande borsa che lo accompagnava Giuseppe Frigo conservava la “Giustizia”, fatta di codici, codicilli, norme, aggiunte, cancellazioni e di tanto buon senso, necessario per comprenderla e applicarla “uguale per tutti”. Oltre la borsa, con sé portava sempre manciate di sorrisi buone per riempirgli il viso e rallegrargli i possenti baffi (“quelli sì – diceva il suo amico Mino Martinazzoli – vanto e segno che faceva la differenza”), ma anche assicurare ad amici e nemici la sua disponibilità ad ascoltare, riflettere, mediare e cercare soluzioni, purché in sintonia con la legge scritta che, diceva “deve rappresentare il punto di riferimento di ciascun contraente, imputato, avvocato o giudice che sia, impegnato a dare un volto alla verità”. Giuseppe Frigo, scomparso qualche giorno fa, è stato prima di tutto cittadino e padre, poi anche avvocato, professore, docente di diritto, esperto in legge e di leggi, presidente delle Camere Penali per quattro anni e per altri otto giudice della la Corte Costituzionale), sempre innamorato e addirittura fanatico della Costituzione “dalla quale – ripeteva spesso agli studenti e ai giovani avviati alla professione forense che lo interrogavano - si diramano norme e principi fondamentali, che sarebbe grave colpa calpestare o non applicare secondo lo spirito che la pervade”.
Nato a Brescia e cresciuto nella città che più di ogni altra gli assomigliava – “pragmatica ma sorridente, bella la sua parte, generosa come poche altre, civile e accogliente, libera e forte, con un cuore pieno di buone abitudini, così buone – diceva - da sembrare attinte al pozzo del vangelo” – Giuseppe Frigo, allievo dell’Arnaldo e poi studente di giurisprudenza a Pavia, si appassionò all’avvocatura calpestando il suolo che era stato di Zanardelli (secondo lui “uno che sapeva di giurisprudenza come pochi altri”), seguendo le orme più nobili e scartando quelle che, invase da un eccesso di liberalismo, conducevano dritte alla politica cara ai “signorotti”. Suoi maestri di avvocatura applicata ed esercitata furono Tino Caravaggi, uno che non aveva certo paura del regime fascista, e Piero Bersi Serlini, che gli aprirono le porte dello studio avviandolo a una brillante carriera; suoi amici di strada e di diritto, furono Mino Martinazzoli, Ciso Gitti, Piero Padula, Bruno Marini e quella “minuta schiera” di avvocati che alla professione aggiungevano passione per la città e per la gente che alla città chiedeva pari dignità e pari opportunità; quelli invece per i quali nutriva simpatie e per i quali era sempre disponibile a impugnare la legge in loro difesa, erano i direttori di giornali “ricchi di fascino ma poveri di finanza”, tra questi don Antonio Fappani, che in qualità di direttore de “La Voce del Popolo” doveva anche sopportare le angherie che certi scritti di suoi collaboratori gli procuravano. Così, al giudice che doveva sentenziare sul ricorso di un tale che si sentiva offeso per essere stato raccontato mentre se la prendeva senza troppo gentilezza con un ragazzino questuante, disse: “È la voce di un popolo civile quella che chiede giustizia e che condanna quel gesto incivile e barbaro; ed è una voce a cui lo scritto ha semplicemente dato amplificazione e risalto”. Il grande avvocato ottenne l’assoluzione e le scuse; il piccolo direttore prete promise al reo preghiere e benedizioni. Adesso quel che resta di Giuseppe è la sua grande rettitudine, il suo amore per un altro sconosciuto ma fratello, la sua fiducia nella misericordia del cielo, il suo attaccamento alla fede e al vangelo, quello che all’ultimo respiro gli ha fatto dire “ho combattuto la buona battaglia, ho mantenuto la fede”. Ti sia lieve la terra, caro amico e ampia e ariosa la strada che ti conduce al Paradiso.