Famiglia. Bello e impossibile?
“Ad impossibilia nemo tenetur” significa: “Nessuno è tenuto a fare le cose impossibili”. Non si tratta di uno slogan, ma del principio fondamentale della morale
“Ad impossibilia nemo tenetur” significa: “Nessuno è tenuto a fare le cose impossibili”. Non si tratta di uno slogan, ma del principio fondamentale della morale. Infatti, in ordine al riconoscimento di ciò che bisogna (eticamente) fare, occorre senza dubbio avere chiare le nozioni del “bene” e dei “valori”, ma – se s’insinua anche solo il dubbio che si tratti di qualcosa di impossibile – tutto diventa irrilevante, perché la moralità riguarda l’azione fattibile oppure non riguarda nulla. La crisi del matrimonio può alimentare questo sospetto, perché i dati li conosciamo tutti.
Per quanto concerne l’Italia, l’Istat – relativamente al 2015 – ha censito 194.377 matrimoni (nel 2008 erano stati 246.613), ma le separazioni sono state 91.706 (nel 2008, 84.165) e i divorzi 82.469 (nel 2008, 54.351), quindi – in totale – 174.175. È vero che ci sono famiglie che si “ricompongono” – come usa dire – attraverso un nuovo matrimonio (generalmente “civile”), ma non bisogna dimenticare che ad ogni unione “ricomposta” ne corrisponde una “decomposta”, quindi – sul piano societario – il fenomeno è dissolutivo tanto quanto risolutivo. Nell’immaginario diffuso il matrimonio continua ad esercitare un forte richiamo, ma il problema sembra consistere nella capacità di decidersi e di tener fede alla promessa reciproca d’amore.
Negli ultimi anni si è lavorato positivamente in ordine alla preparazione “prossima” alle nozze ed è cresciuta la consapevolezza della esigenza che si venga introdotti nel matrimonio attraverso corsi e iniziative di vario tipo. I dati odierni ci devono portare a riflettere su cosa dovrebbe essere la preparazione “remota” (di cui si parla da tempo) in considerazione della rilevanza che la tenuta del matrimonio ha non solo per i singoli, ma anche per la società nel suo complesso. Infatti, già la promessa pubblica correlata alla sua forma “civile” ha un indubbio rilievo.
La dimensione sacramentale – espressa dalla sua forma “religiosa” – vi aggiunge uno spessore antropologico e spirituale che ricade direttamente sul modo di guardare alla vita e di affrontarla. Non ci si può quindi rassegnare al declino del matrimonio e alla difficoltà nel custodire l’unità coniugale, ma occorre – come è già avvenuto in passato – adottare strategie mirate e precoci per illuminarne il significato e favorire l’assunzione di responsabilità.