Facebook: né diavolo né acqua santa
“Sei in Facebook? No? Strano per uno che fa comunicazione”. Capita di sentirmelo dire. A dir la verità in Facebook ci sono anch’io, ma non con un profilo personale. Ci sono attraverso la pagina di “Voce” che raccoglie oltre 8.500 mi piace e che è diventata un’occasione di incontro con migliaia di lettori con cui condividiamo notizie, video e fotografie della vita della Chiesa e della gente
“Sei in Facebook? No? Strano per uno che fa comunicazione”. Capita di sentirmelo dire. A dir la verità in Facebook ci sono anch’io, ma non con un profilo personale. Ci sono attraverso la pagina di “Voce” che raccoglie oltre 8.500 mi piace e che è diventata un’occasione di incontro con migliaia di lettori con cui condividiamo notizie, video e fotografie della vita della Chiesa e della gente. Ci siamo perché stare in Facebook è come stare in piazza. S’incontrano tante persone, si fanno circolare idee, si ascoltano i commenti. Facebook non elimina i giornali, ma è diventata un po’ come la pagina virtuale delle lettere, ci aiuta a coltivare il dialogo con i lettori: quelli che comprano il giornale di carta, quelli che visitano il sito e quelli che c’incontrano solo in rete. Come ogni piazza Facebook non è esente dal rischio del pettegolezzo, della maldicenza, a volte persino della calunnia. Ci sono un sacco di chiacchiere inutili nei social e quello più diffuso al mondo (quasi 2 miliardi di profili attivi al mese e 30 milioni in Italia) ne è il regno assoluto. Fake news, insulti, linguaggio aggressivo... sinceramente stare in Facebook a livello personale non mi interessa. Come “Voce”, invece, anche grazie all’autorevolezza storica della nostra testata, ci è utile per condividere con chi ci segue contenuti, opinioni e notizie creando una community di amici a cui rilanciare informazioni che altrimenti potremmo comunicare solo con il ritmo settimanale. Facebook non è né il diavolo né l’acqua santa. I miei dubbi però sono aumentati in questi giorni dopo la scoperta dello scandalo Cambridge Analytica sui dati di 50 milioni di utenti che sarebbero stati utilizzati impropriamente dalla società di analisi britannica nella campagna presidenziale di Trump del 2016 e in quella per la Brexit. Che ne è di tutto quello che scriviamo, delle immagini che mettiamo in Facebook e sugli altri social? Chi ci tutela? Chi ne ha il controllo?
Questo sistema è malato e i primi responsabili siamo noi. Chi, se non noi, ha immesso dati sensibili, informazioni riservate e opinioni in rete accettando che tutto questo divenisse proprietà del sig. Mark Zuckerberg? Facebook sa chi siamo, cosa pensiamo ed è autorizzato da noi a fare di questo l’uso che vuole. Direte: “Non è giusto! Non lo sapevo”. Ma l’ignoranza della legge non è ammessa. Emerge poi anche un’altra responsabilità ed è quella di chi sostiene che internet, in nome della democrazia e della libertà di espressione, non debba essere regolato. Non si capisce allora perché, ad esempio, esiste per chi scrive su un giornale di carta una responsabilità penale e civile mentre chi lo fa in rete può dire più o meno quello che vuole senza pagare se sbaglia... Mistero della rete. Certo è che un mondo senza regole non tutela nessuno soprattutto i più deboli che in questo caso siamo noi utenti e non certo i grandi gruppi, i signori Facebook, Twitter, Google o chi per loro. L’indignazione di questi giorni ha fatto crollare il titolo di Facebook in borsa. La perdita di fiducia dei mercati è l’unico linguaggio comprensibile, forse l’unico che potrà far decidere a chi di dovere di prendere provvedimenti. A noi cittadini comuni non resta che tenere alta la guardia. Educarci ed educare al senso critico, alla prudenza nell’uso dei social e del web in genere è una necessità imprescindibile in questo mondo iperconneso. Sempre pronto a blandirci, se gli è utile, e a distruggerci quando gli fa più comodo.