di NICOLA SALVAGNIN
14 apr 2016 00:00
Economia. Invidia per i furbi?
Il tradimento del ceto medio, l’ha definito il “Corriere della Sera”. Quella fetta di italiani – e non solo – che lavorano e pagano le tasse. Tutte, tante.
Secondo la World Bank, gli infelici italiani subiscono una tassazione complessiva del 64,8%: pagano imposte sui redditi, sulle rendite, sulla casa, sulla benzina, su ogni acquisto di beni e servizi: è il record mondiale. Anche se come record non ci fa inorgoglire. Ci vuole tanto equilibrio interiore, per non farsi venire problemi connessi alla bile. Questo popolo di saltimbanchi che denuncia al Fisco un reddito medio lordo di 20mila euro annui (solo uno su cento più di 100mila euro), è poi considerato da tutte le aziende mondiali un target di consumatori esigenti, “premium”, che dalle auto ai profumi fino ai vestiti vuole il meglio, il più accessoriato, il più firmato… Ci si priva del pane, noi, per l’ultima borsetta alla moda, per la selleria in pelle bulgara nelle nostre Mercedes (per le auto di lusso siamo un mercato importante). Ma anche sulla privazione del pane ci sarebbe da discutere, visto che il peso superfluo appare un fenomeno assai diffuso. Ma cosa volete, ci vorrebbe il buon esempio. Invece siamo al così fan tutti: politici e starlette, sportivi e figli di, industriali e manager. Se non hai il conto a Panama, il patrimonio in Svizzera, la sede legale nel Delaware e quella fiscale in Lussemburgo, non sei veramente nessuno. Chi appena può, le tasse le scansa con abilità straordinaria e le fa pagare appunto al ceto medio, a quelle persone che si strappano di mano le riviste rotocalco per leggere dove i primi passano le vacanze, che barche acquistano, che vestiti indossano nelle serate di gala.
Fa parte del nostro carattere, forse questo ci salva dall’estinzione causa ulcera duodenale: noi italiani invidiamo chi ci sta fregando. Invece di chiedere conto di ricchezze imponenti non sempre dettate dal copioso sudore della fronte, sogniamo di essere “dall’altra parte” a fare marameo a chi è come noi. Il fatto che questo ci impedisca di essere un popolo, ma ci lasci allo stadio di massa di individui in qualche modo conviventi, non ci ha mai destato grandi perplessità.
Il latino non lo vogliamo studiare più: ci basta sapere cosa voglia dire “mors tua vita mea”.
NICOLA SALVAGNIN
14 apr 2016 00:00