E se a uccidere fossero le parole?
A Palazzolo sull’Oglio, dove nei giorni scorsi un agente della Polizia Locale si è tolto la vita, aleggiano tanti interrogativi, che trovano sintesi in una sola domanda: perché?
A Palazzolo sull’Oglio, dove nei giorni scorsi un agente della Polizia Locale si è tolto la vita, aleggiano tanti interrogativi, che trovano sintesi in una sola domanda: perché? “Sento quanto avvenuto questa notte come uno dei più grandi fallimenti umani e professionali da quando sono sindaco” ha scritto il primo cittadino Gabriele Zanni sulla sua pagina Facebook, a commento del tragico gesto. Tantissimi sui social hanno condiviso il pensiero del sindaco. Quanti, però, sapranno accollarsi anche un po’ di quel senso di fallimento per non avere compreso, e forse anche alimentato, quel disagio che ha portato un uomo di 43 anni, un adulto, una personalità matura, non certo un adolescente “naturalmente” meno attrezzato a reggere agli urti della vita, a prendere un’arma e a uccidersi? Un suicidio è sempre una tragedia insondabile, incomprensibile: è un dramma della solitudine che mette in fila tante vittime: chi compie il gesto estremo, la sua famiglia, i contesti comunitari che non hanno saputo o non hanno voluto accorgersi di un disagio che, evidentemente, stava montando.
Un suicidio è qualcosa che sembra sfuggire a ogni logica: lo è quando chi sceglie di togliersi la vita lascia una spiegazione per il suo gesto; lo è ancora di più quando tutto questo manca.... Quanti sono quelli che coglieranno, in un gesto tragico come quello che ha sconvolto la comunità di Palazzolo, l’opportunità di una riflessione, di un pensiero prima di lanciarsi nuovamente e senza alcun limite sui social, diventati ormai non solo piazza virtuale in cui incontrarsi e scambiarsi opinioni, ma anche tribunali in cui, impunemente, ognuno è libero di emettere sentenze, di comminare condanne inappellabili, giudizi di assoluzione, spazi in cui (anche colpevolmente aizzati da chi avrebbe il dovere della misura e della responsabilità) vomitare il peggio del peggio senza curarsi delle possibili conseguenze di quel che si scrive? Da Palazzolo torna prepotentemente alla ribalta il tema del “peso delle parole” di cui ha parlato anche il Vescovo nei giorni scorsi incontrando i giornalisti bresciani.
Il presule ha raccomandato loro l’uso di linguaggi sempre rispettosi, anche quando usati per esprimere una critica o un giudizio, della dignità della persona. L’agente della Polizia Locale di Palazzolo non ha spiegato le ragioni del suo gesto; forse avrà avuto tanti altri disagi, tanti altri pensieri per la testa, tanti altri pesi sul cuore da spingerlo a trovare nella morte la soluzione estrema. Chissà... Interroga, però, le coscienze (quelle di chi ha messo mano alla tastiera per dire la sua sulla vicenda, ma anche quelle di chi ogni giorno si affaccia al mondo considerato senza limiti di Facebook e di tanti altri social), crea qualche imbarazzo conoscere quella che è stata la parabola temporale, la successione degli eventi conclusa con un gesto tragico, insondabile? Quello che sino a qualche settimana prima era un agente irreprensibile, tanto da ottenere anche un riconoscimento ufficiale per meriti conseguiti in servizio, in pochi giorni è diventato un caso da affidare alla gogna mediatica che ha gonfiato quello che è stato uno scivolone (il parcheggio dell’auto di servizio in uno spazio per i disabili), certo non indifferente per chi porta una divisa, una leggerezza che potrebbe capitare nella vita di ogni uomo. L’ha amplificato sino a farlo diventare, un post dopo l’altro, quasi una macchia indelebile... L’agente ha scelto di non spiegare se alla base del suo gesto estremo ci sia stata anche l’incapacità di reggere questo peso, e forse per molti questo “vuoto” potrà suonare assolutorio. La speranza, invece, è che per molti altri, magari anche per quelli (che nella vicenda non sono mancati) che nel giro di pochi giorni hanno dismesso i panni virtuali degli implacabili fustigatori della rete, per assumere quelli (meno credibili) delle prefiche online, questo silenzio rappresenti una sorta di cuneo per le coscienze, perché prendano atto che il confronto con il peso delle parole, con la pesantezza di certe sentenze che si affidano alla rete, ormai non è più un dovere di chi esercita la professione giornalistica, ma un obbligo che riguarda tutti, indistintamente.