È il tempo di cambiare sguardo
"Non vi è proprio alcuna parvenza di una cultura cristiana profonda, pervasiva, latente, “invisibile”, ma attiva e generante? Stiamo cercando ciò che è visibile agli occhi e non vediamo ciò che solo il cuore è capace di leggere. Quanta sofferenza in questo tempo, ma quanto amore, quanta carità, quanto dono!"
È ora di cambiare. Di tanto in tanto, ciclicamente emerge questo desiderio, si afferma questo imperativo, si affaccia questa prospettiva. Accade solitamente nei momenti di crisi, di difficoltà, di insoddisfazione. Sembra suonare una sveglia che ci desta da una sonnolenta tranquillità e ci proietta verso un giorno nuovo carico di incognite, ma per certi versi sfidante e promettente. L’attivismo, l’efficientissimo, la propensione al “fare”, all’agire, al brescianissimo stile del “rimboccarsi le maniche” agiscono nella mente e nel cuore generando preoccupazione e un po’ di ansia se immediatamente dopo la sveglia non si è messo mano all’aratro, non si sono accese le macchine, non si sono aperte le porte di uffici, botteghe, fabbriche e officine.
Espressioni come “irrilevanza”, “fragilità”, “nascondimento”, “inutilità” le conosciamo, ma non accarezzano le nostre orecchie e non suscitano né entusiasmo né suonano come desiderabili per la realizzazione di sé e della società nella quale viviamo. Eppure le abbiamo sperimentate in questo oscuro tempo di pandemia ed ora, come il tuffatore giunto sul fondo della vasca, anche noi vogliamo riemergere quanto prima con uno scatto repentino da una condizione che provoca disagio per tornare a respirare in superficie. Tornare, ripartire, riprendere sono i verbi più utilizzati per esprimere gli auspici di questo tempo nel quale, ascoltando il “filo delle memorie”, si affacciano i desideri di bene per i tempi che ci attendono. Ho ascoltato con interesse il dibattito, il confronto circa la presenza e la significatività della chiesa nei giorni del lockdown e nelle fasi scandite dai decreti dell’emergenza. Qualcuno si chiede “dove eravamo? Cosa abbiamo fatto o potuto fare? Come hanno vissuto le comunità cristiane i giorni della crisi e della chiusura?” L’analisi, soprattutto di noi presbiteri, spesso tende a scindere con una certa precisione la “comunità cristiana” rispetto alla società, la chiesa e il mondo, i cristiani rispetto agli altri, lo sguardo “ad intra” rispetto a ciò che è apparso “ad extra”.
Forse è ora di cambiare sguardo! Lo dico senza alcun intento polemico, ma al fine di superare un certo “clericalismo di ritorno” che tende ad applicare categorie che separano e distinguono e rendono difficoltosa l’immersione “nel mondo”. Provo ad immaginare cosa abbia mosso uomini e donne di questo tempo e di questo mondo ad essere vicini a chi ha sofferto la malattia e la morte; ad agire con competenza, abnegazione, eroismo spendendosi per alleviare le sofferenze e provare a vincere un male subdolo e invisibile; a farsi carico di scelte difficili e talvolta impopolari governando e amministrando per il bene di tutti. Non c’è alcun fermento evangelico in questo? Non vi è proprio alcuna parvenza di una cultura cristiana profonda, pervasiva, latente, “invisibile”, ma attiva e generante? Stiamo cercando ciò che è visibile agli occhi e non vediamo ciò che solo il cuore è capace di leggere. Quanta sofferenza in questo tempo, ma quanto amore, quanta carità, quanto dono! È ora di cambiare sguardo superando la contrapposizione tra laici e presbiteri riconoscendoci nella relazione proficua che si stabilisce nell’essere parte del popolo di Dio. È ora di cambiare sguardo aprendoci all’incertezza delle domande più che chiuderci in facili risposte rassicuranti. Mi tornano alla mente le acute parole di Giuseppe Dossetti, capaci di indicarci da dove partire: “Sono sempre più persuaso che comunque si voglia concepire l’uomo nel mondo, nella storia, nel suo fare, nulla può essere fatto al di fuori che non sia compiuto secondo verità al di dentro dell’uomo. (…) Quindi è estremamente importante pensare che non posso compiere atti di fede validi per gli altri, per l’edificazione della Chiesa, per la sua riforma, per la consolazione dei fratelli, per il sostegno di opere comuni anche di vita civile, di servizio umano, se queste cose non si sono compiute in modo autentico dentro di me. Quale atto di fede che sia veramente valido per gli altri posso fare al di fuori, se non è un atto di fede profondamente vero dentro di me?”.