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Roma
di ALBERTO CAMPOLEONI 09 giu 2022 09:06

Dress code in aula

Si tratta di domandarsi se sia opportuno o meno presentarsi nelle aule scolastiche in maglietta, shorts, ombelico di fuori, minigonne estreme, jeans strappati e quanto altro la fantasia può suggerire alle ragazze e ai ragazzi di oggi

Ci risiamo. Succede ogni anno e l’argomento sarebbe stucchevole se non fosse che ogni volta porta con sé sfumature differenti, che fanno pensare.

Il problema è quello dell’abbigliamento a scuola, oppure del “dress code”, lo si chiami come si vuole. In sostanza si tratta di domandarsi se sia opportuno o meno presentarsi nelle aule scolastiche in maglietta, shorts, ombelico di fuori, minigonne estreme, jeans strappati e quanto altro la fantasia può suggerire alle ragazze e ai ragazzi di oggi. Si tratta anche di domandarsi se si possa o meno far notare – da parte di chi ha responsabilità, a cominciare dai dirigenti scolastici – ad alunni e famiglie abbigliamenti e/o atteggiamenti ritenuti inopportuni.

L’ultimo caso riportato dalle cronache riguarda un liceo di Vicenza, con la preside accusata di commenti sessisti e addirittura “grassofobici”, contro “la ciccia” che non andrebbe mostrata. E via con le proteste. Sit in compreso. La Rete degli Studenti Medi di Vicenza, riferendosi a quanto accaduto al liceo “Fogazzaro”, parla di “un fatto sconcertante, che definire grave è riduttivo”. Come riportano i giornali la Rete spiega che la preside avrebbe “costretto le studentesse di una classe ad alzarsi in piedi per controllare il loro abbigliamento, per poi sanzionare, tramite note disciplinari, chi ritenesse vestita con abbigliamento non adeguato al contesto (nonostante nel regolamento d’istituto non ci siano norme che ne parlano e lei stessa si rifiuti di aggiungerle)”.

Ultimo caso, perché prima ce ne sono stati altri anche quest’anno, con regolamenti e circolari in alcuni istituti per “arginare” abbigliamenti ritenuti impropri alle aule scolastiche. E non si contano gli avvenimenti degli anni passati. Come si diceva l’argomento dell’abito (fa o non fa il monaco?) torna con regolarità, in particolare con l’avvento dei mesi caldi.

Che fare?

Prima cosa una precisazione: dai fatti ci allontaniamo, perché andrebbero verificati, Ad esempio sempre riferendoci al caso vicentino, va annotato che la preside respinge ogni accusa e parla di un resoconto manipolato.

Resta il problema: è opportuno o no mettere dei paletti all’abbigliamento in ambiente scolastico? Chi si occupa di scuola sa bene, ad esempio, che in altri momenti si è discusso a lungo – e in sedi importanti – della possibilità di avere una vera e propria “divisa” a scuola. Uno degli argomenti sollevati era, tra gli altri, quello di non far risaltare eccessive differenze anche “sociali” ed economiche legate all’abbigliamento.

Senza arrivare a tanto, una riflessione su come “presentarsi” a scuola vale la pena. Così come ci si pone il problema quando si va a una festa importante o a un colloquio di lavoro.

La scuola ha allo stesso tempo una sua “sacralità” – è un luogo importante e serioso nel quale si compie una delle attività più decisive per la vita, l’educazione, si incontrano tradizioni e cultura, il patrimonio di un popolo oltre naturalmente a tante persone – e insieme una certa “leggerezza”, legata al fatto che i suoi protagonisti sono in buona parte ragazze e ragazzi, addirittura bambini, o giovani che aspirano all’età adulta. Mediare queste due tensioni (semplificando: seriosità/sacralità con leggerezza/spontaneità) non è facile e chiede buon senso da parte di tutti (comprese le famiglie, i genitori che stanno fuori dalle porte delle aule).

C’è una soluzione unica? Probabilmente no. Ma porsi il problema senza banalizzarlo o finire negli insulti e nelle accuse, non è inutile. E il caso di Vicenza – che può essere comune a tante altre realtà – può diventare un’occasione per fare un passo avanti.

ALBERTO CAMPOLEONI 09 giu 2022 09:06