Divorzio: la Cassazione cambia rotta?
La legge sul divorzio (art. 5 L. n. 898 del 1970) stabilisce che, in caso di scioglimento del vincolo matrimoniale, il tribunale, tenuto conto di alcune condizioni, “dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”
Circa la recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 11504 del 10 maggio scorso), che ha modificato l’orientamento giurisprudenziale sui criteri di liquidazione dell’assegno divorzile, si è parlato da più parti di “rivoluzione copernicana”, ma probabilmente sarebbe più corretto dire (come fa la stessa sentenza) che si è conclusa definitivamente un’epoca di contemperamento tra diverse visioni del matrimonio. Per meglio intenderci, è noto che la legge sul divorzio (art. 5 L. n. 898 del 1970) stabilisce che, in caso di scioglimento del vincolo matrimoniale, il tribunale, tenuto conto di alcune condizioni, “dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. Nelle precedenti decisioni (e in particolare a partire dalle sentenze delle Sezioni Unite del 1990) gli Ermellini avevano applicato quella norma nel senso che l’assegno di divorzio avesse lo scopo, tra l’altro, di consentire al coniuge economicamente più debole di continuare a mantenere lo stesso “tenore di vita” che aveva durante il matrimonio, e ciò indipendentemente dalla sua esistente o potenziale autonomia economica.
Tale interpretazione, si legge nella decisione in commento, era stata dettata dalla necessità di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio (inteso come ‘sistemazione definitiva’) senza tuttavia rompere traumaticamente con una concezione tradizionale, all’epoca ancora radicata nella società. “Questa esigenza” continuano i giudici della Cassazione “si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile”; di qui la decisione di ritenere non più attuale il parametro di liquidazione dell’assegno di divorzio in ragione del “tenore di vita”, ma esclusivamente in ragione del fatto che il coniuge richiedente disponga effettivamente di (o possa procurarsi) mezzi di autonoma sussistenza; come dire: se puoi mantenerti da solo, non hai diritto all’assegno né al tenore di vita che ti garantiva un matrimonio che non c’è più. Secondo la Cassazione, infatti, essendo ormai venuto meno il vincolo coniugale, non si può pretendere che esso esplichi ancora effetti di natura patrimoniale, e quindi l’ex coniuge potrà invocare un mantenimento (sussistendone i presupposti) non già sulla base di un rapporto estinto, ma piuttosto come “persona singola” ed in forza del principio di solidarietà assistenziale garantito dagli artt. 2 e 23 della Costituzione. Il revirement della Corte di legittimità è destinato ad alimentare notevoli attese ed insieme preoccupazioni fra le parti delle controversie matrimoniali, i cui numeri non accennano a diminuire né a livello nazionale (83 mila divorzi e 92 mila separazioni nel 2015) né a livello bresciano (ove nell’ultimo anno sono stati chiusi ben 3.119 procedimenti di separazione o divorzio, con una media di quasi nove al giorno); e, benché la innovativa sentenza della Cassazione abbia effetto immediato solo per il procedimento da essa definito, c’è da aspettarsi che il principio ivi affermato possa favorire la riapertura di questioni chiuse e la richiesta di modifica delle precedenti condizioni economiche.
La decisione della Suprema Corte, pur sostenuta da pregevoli e dotte argomentazioni giuridiche, è già stata oggetto di qualche critica non solo di natura etico-sociale, ma anche giuridica; mentre infatti gli ex coniugi onerati di pesanti obblighi di mantenimento (in genere, mariti facoltosi) esultano per l’introduzione di un principio di maggiore equilibrio patrimoniale, i beneficiari del mantenimento (statisticamente, le mogli) avvertono la preoccupazione di vedersi privati di un sostegno economico in un periodo critico della loro vita (nella maggior parte dei divorzi il coniuge beneficiario dell’assegno è la moglie con un’età media di 50 anni e con conseguenti difficoltà a reperire un’occupazione). Altri si chiedono se sia giusto cancellare con un colpo di spugna tutti gli effetti, specie economici, del pregresso vincolo matrimoniale, quando esso sia durato a lungo e quando anche il coniuge economicamente più debole (tornando alle statistiche, ad es. la moglie casalinga) abbia contribuito o anche solo favorito le condizioni del successo patrimoniale dell’altro. Sono interrogativi che saranno certamente oggetto di discussione accesa nel tempo a venire sulla scia di una sentenza che presenta luci ed ombre: se, infatti, è pur vero e condivisibile che si debba prendere atto della mutata coscienza sociale e dell’esigenza di evitare quelle che la Cassazione definisce “locupletazioni” matrimoniali, è altrettanto vero che non possa essere totalmente svuotato di valore e di qualsiasi effetto un istituto sociale come il matrimonio che ancora oggi la Costituzione (art. 29) tutela come fondamento della famiglia.