Direttore umile, fedele e coraggioso
Prete dal 1949, don Antonio arrivò nella redazione del settimanale diocesano “La Voce del popolo” quando il giornale era diretto da don Mario Pasini. Dopo il 1960 raccolse l’eredità di direttore del settimanale diocesano e si caricò di onori e oneri proseguendo quella meravigliosa avventura
Don Antonio se ne è andato, ma questa volta planando sulle ali del vento e non caracollando sulla sua bicicletta. Però, avrebbe voluto rimanere ancora un po’, almeno il tempo necessario per concludere di scrivere quei libri – due o forse tre, perché gli piaceva comunque lavorare su piani diversi e in diverse direzioni – che aveva in mente di presentare se non a Natale, almeno a Pasqua. Invece, nonostante la promessa di incontri ravvicinati, di letture intelligenti e chiacchiere sull’essere e sul divenire della società, mentre la domenica declinava lasciando il posto a un’altra settimana, Lui ha salutato e s’è incamminato sulla strada che porta dritta al Cielo dei giusti, laddove il Buon Dio gli aveva preparato un posto adatto a contenere tutti i libri del mondo: quelli letti, quelli scritti e quelli ancora da scrivere.
Prete dal 1949, don Antonio arrivò nella redazione del settimanale diocesano “La Voce del popolo” quando il giornale era diretto da don Mario Pasini. Dopo il 1960 raccolse l’eredità di direttore del settimanale diocesano e si caricò di onori e oneri proseguendo quella meravigliosa avventura. Quelle tre parole rivoluzionarie - “fede, lealtà, coraggio” - che stavano e per fortuna stanno ancora scritte sotto la testata, furono il suo punto di riferimento essenziale. Il direttore don Antonio Fappani voleva un giornale scritto con passione e comprensione per gli umili abitanti della città e della provincia, un giornale di notizie ma anche di commenti coraggiosi; voleva che le strade bresciane fossero percorse e raccontate, che dalle pagine emergessero i volti buoni e i problemi reali che la gente doveva affrontare giorno dopo giorno. Soprattutto, voleva che ogni scritto fosse la raffigurazione vera e reale dei paesi e delle comunità. Allora, una volta confezionai “le scarpe di Mao” (impertinente e, per certi versi, doloroso viaggio tra i malumori degli operai di Verolanuova), un’altra tirai “la coda del pavone” (piccola antologia delle virtù e dei vizi della ricca Rovato), in tantissime altre occasioni raccontai “beghe, beghine e beghette” della politica e del sindacato, “i sogni e le delusioni” di illustri ma anche improbabili personaggi, “i risvolti e le resistenze“ dei campanili, “le tragedie e le amarezze” dei giorni dell’ira e della violenza che ebbero in piazza della Loggia il loro epicentro, “il cuore segreto” delle associazioni, “i pensieri e le opere” di tanti “poveri ma santi” preti, “le ricchezze e le conquiste” dei soliti noti, “i vizi e le virtù” di una società in evoluzione (buona e cattiva in pari misura), “gli sproloqui e i pregiudizi” del perbenismo allora dominante, “le arroganze” dei soliti circoli chiusi (liberisti rampanti, proletari arrabbiati o cultural-chic che dir si voglia) “i desideri infranti” sui muri dell’indifferenza. Anche, proprio nel bel mezzo di una disputa attorno al chi poteva essere il sindaco di Brescia, una copertina con un perentorio “la città ha bisogno di Trebeschi”, che a suo modo spinse il “non-politico” avvocato a ricandidarsi.
Ricordo stagioni nelle quali, grazie al coraggio e alla lungimiranza di don Antonio, direttore disposto a soffrire incomprensioni e critiche se questo serviva a rendere omaggio alla verità, fiorivano irriverenti “epigrammi”, altre in cui “le settimane” di Procopio e le divagazioni di Viandante disegnavano divertenti e intriganti siparietti. Lui leggeva, ammiccava, raccomandava, sorrideva e, senza alcun timore, pubblicava. Don Antonio, mite e pensoso, dal niente o dal quasi niente, cavava storie, colorava pensieri e tesseva note di costume, articoli di fondo scritti rigorosamente a mano che portava direttamente in tipografia sfidando le logiche delle ultime ore disponibili. Poi, la sua apertura ai nuovi mezzi della comunicazione sociale, con RadioVoce a far da apripista e l’idea di un canale televisivo gestito e alimentato dai cattolici bresciani sempre in bella vista. Infine, nel 1983, la conclusione del mandato di direttore del settimanale diocesano e l’avvio di un tempo dedicato alla Fondazione Civiltà Bresciana. Così fino alla fine dei suoi giorni, col cruccio di non riuscire a concludere i lavori avviati ma anche con la soddisfazione di aver fatto tanto, tantissimo, eppure non ancora sufficiente ad assicurare un futuro certo a quella Fondazione Civiltà Bresciana tanto amata e tanto onorata da quotidiano impegno. Qualche giorno fa, salutandolo, gli raccomandai di mettermi da parte tagli, ritagli e scritti dedicati a un prete che per ottant’anni era stato testimone credibile, severo e attento della storia bresciana. Quel prete era lui. Di sicuro aveva colto la provocazione. Ma fece finta di niente. Però, sorrise.
(Luciano Costa)