Di violenza in violenza
È impossibile non essere colpiti dalla violenza che ha coinvolto Donald Trump, nel senso letterale del termine: non so quanto in maniera volontaria, ma dal momento dell’attentato in poi si è scatenata una serie di piccole-grandi violenze a cui siamo stati sottoposti.
C’è stata la violenza delle immagini: quelle dell’attentato; quelle dell’attentatore freddato e lasciato lì morto; la ricerca ossessiva del fotogramma migliore, dal sangue che non tocca la camicia bianca, all’imbarazzo della scorta… C’è stata la violenza delle parole: tutti i commenti dei leader politici sembravano la fotocopia l’uno dell’altro (“nella politica non c’è spazio per la violenza”), con un’intensità di retorica a invocare toni pacifici quando, di norma, quasi nessuno li applica; la lamentela sulla facilità americana di poter avere armi, anche d’attacco, con la non-volontà di voler cambiare una virgola… C’è stata la violenza del silenzio, perché si sono, di colpo, zittiti tutti gli altri problemi del mondo, dai problemi mondiali a quelli di casa nostra (sono morti in quella notte quattro giovani amici, uccisi probabilmente dalla velocità, a cui prestiamo sempre meno caso e cura). E dire che la politica dovrebbe essere l’arte di prenderci cura l’uno dell’altro, più che di farci violenza l’uno sull’altro.