Ddl Zan: diritto, politica, antropologia
Il Ddl Zan è prossimo alla discussione anche al Senato. Si tratta di uno dei provvedimenti in materia penale che, nel tentativo di colmare una lacuna normativa avvertita in un dato momento come di allarme sociale, sconta il limite del “rattoppo” di un sistema che assorbe energie meglio destinabili ad una coerente riforma del codice penale.
In tutta franchezza i timori dei detrattori del Ddl sembrano essere eccessivi, quantomeno sul piano strettamente tecnico-giuridico, essendo invece giustificabili sul diverso piano dell’opportunità di utilizzare le norme penali per risolvere questioni etiche ed antropologiche. Ma per rimanere in ambito strettamente tecnico-giuridico, cosa si limita a fare il Ddl Zan? Aggiunge qualcosa a una norma risalente al 1993 (“legge Mancino”) trasferita tout court nel Codice sotto l’articolo 604 bis nel 2018; tuttavia, si badi bene, non modifica la condotta prevista dalla norma, ma semplicemente indica nuovi motivi che possono fondare atti discriminatori di rilevanza penale. Già ora chi commette atti di discriminazione o li istiga a commettere o commette violenze o atti di provocazione alla violenza “per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” è punito con la reclusione. Il Legislatore ora si limiterebbe ad ampliare il catalogo dei “motivi” introducendo quelli “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere” e “sulla disabilità”.
Non pare quindi corretto affermare che si stia introducendo un “delitto d’opinione”. Benché infatti l’espressione “atti di discriminazione”, già presente nel testo vigente, possa creare qualche disagio interpretativo per la sua ampiezza, in verità l’art. 4 del Ddl fa “salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”, con ciò escludendo che il Giudice possa assimilare l’atto di discriminazione alla manifestazione del pensiero. In particolare sono state sollevate perplessità in ordine alla locuzione finale dell’art. 4 del Ddl “purché [le condotte] non [siano] idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Tale espressione tuttavia corrisponde alla interpretazione tradizionale della condotta di “istigazione”, già oggi penalmente rilevante per scongiurare discriminazioni razziali, etniche, nazionali o religiose. Dunque l’opinione non deve diventare volontariamente un’incitazione che sia concretamente in grado di determinare in taluno il compimento di atti discriminatori o violenti per la vasta gamma di motivi indicata dal Legislatore. Non si potrà punire chi manifesterà personali convincimenti anche contrari (ad esempio sul piano etico) a omosessualità, bisessualità, o transessualità, ma chi con dolo convincerà determinate persone (concorso nella commissione) o cercherà di convincerne un numero imprecisato (istigazione) a compiere atti discriminatori (o addirittura violenze) contro tali persone offese, considerate in “condizione di particolare vulnerabilità”.
In conclusione, al di là di ulteriori e futuribili scopi politici posti a sostegno del (modesto) progetto di riforma codicistica, la portata concreta dell’intervento non pare travolgente in senso “progressista”, né giuridicamente inquietante. Ciò che appare piuttosto discutibile – come avverte il presidente emerito dei Giuristi Cattolici, prof. D’Agostino – è il tentativo di “portare una questione antropologica di così grande rilievo come la sessualità su di un piano politico-legislativo” e di risolverla mediante norme penali; non è compito del diritto penale accreditare socialmente nuove sensibilità o costumi, e tanto meno operare per categorie di persone, piuttosto che per norme generali, come se la tutela di quel bene assoluto e comune che è la dignità umana possa trovare limiti soggettivi.