Conflitti d’interesse e disinteresse
Il termine policrisi fu inventato dal filosofo Edgar Morin negli anni Novanta, in riferimento soprattutto alla crisi climatica. È recentemente riemerso nella pubblicistica con lo storico dell’economia Adam Tooze, secondo cui “nella policrisi gli shock sono numerosi, ma interagiscono in maniera tale che l’insieme sia più sconvolgente della somma delle parti”. Al di là di semplificazioni in voga, il problema reale è la profonda sottovalutazione delle minacce alla stabilità economica e politica derivanti dalla crisi ecologica già in atto.
L’insostenibilità di un approvvigionamento energetico troppo concentrato sui combustibili fossili espone il sistema economico a ricorrenti shock energetici, con forti ripercussioni a cascata su inflazione e occupazione, di cui abbiamo avuto un assaggio nel 2022. Le crisi climatiche regionali generano sempre più spesso anche ondate di acuta instabilità politica, che a loro volta promuovono conflitti e intensi flussi migratori. La crescente pressione antropica sugli ecosistemi naturali è motivo di moltiplicazione e diffusione pure dei vettori pandemici, con l’oramai famigerato carico di devastanti sconvolgimenti di ordine economico, che abbiamo riconosciuto a partire dal 2019.
Alle determinanti multiple e interdipendenti di questi rischi bisogna aggiungere che talvolta la risposta delle autorità responsabili produce un ulteriore incremento, anziché una mitigazione, del rischio. È il caso, appunto, del disinteresse che, nella sostanza, molti governi dimostrano per la riduzione delle emissioni, l’adattamento ai cambiamenti climatici, la prevenzione dei rischi pandemici.
Sempre più spesso, tuttavia, le misure dei decisori si rivelano inadeguate perché originano da conflitti di interesse rispetto al fenomeno che dovrebbero curare, o da semplice mancanza di cultura. Qualche caso istruttivo? L’inazione sul clima deriva anche dalla “cattura” dei governi da parte di gruppi di pressione dell’industria estrattiva, Italia compresa. Ancora, possiamo ormai dichiarare che le politiche monetarie e fiscali 2020-21 sono state troppo espansive e per troppo a lungo, contribuendo perciò in misura determinante allo shock inflazionistico che stiamo ancora attraversando. Oppure, che per l’ennesima volta nella storia gli interventi protezionistici delle industrie nazionali, come le tariffe doganali di Trump o la Brexit, si sono dimostrati dannosi per l’economia di origine e per il resto del mondo. Primum non nocere?