Come si vive il lavoro
È piuttosto facile indignarsi per le ingiustizie. Più impegnativo denunciarle. Decisamente impopolare calarsi nei panni delle vittime fino a condividerne la sorte. Prendiamo il caso del mondo del lavoro. Prima metà del ‘900. A Parigi una giovane donna, filosofa, prende un anno di aspettativa dall’insegnamento per farsi assumere come operaia in un altoforno, in una fabbrica di automobili e nel lavoro dei campi.
Simone Weil (1909-1943), nata da ebrei non credenti, è stata marxista, sindacalista, anarchica, pacifista e infine mistica cristiana. Le parole che annota nel suo diario sono un resoconto dettagliato della condizione di schiavitù in cui la catena di montaggio riduce gli operai. Lei stessa ne fa triste esperienza: “Stasera, salendo sull’autobus, bizzarra reazione. Come, io, la schiava, posso dunque salire su questo autobus, farne uso per i miei dodici soldi come qualsiasi altra persona? Che favore straordinario! Se mi facessero scendere in malo modo dicendo che certi mezzi di locomozione così comodi non sono fatti per me, credo mi parrebbe cosa normalissima. La schiavitù mi ha fatto perdere completamente il senso di avere dei diritti. I miei compagni non hanno pienamente capito che sono schiavi”, perché, accettando di appartenere “alla classe di quelli che non contano”, non riescono a comprendere che non è il lavoro il problema, ma come lo si vive.
Un primo passo verso la liberazione nel lavoro e non dal lavoro – suggerisce – potrebbe essere raccontare le proprie umiliazioni sul giornale di fabbrica: “Se una sera o una domenica, improvvisamente, vi fa male dover sempre chiudere in voi stessi quel che vi pesa sull’anima, prendete carta e penna. Non cercate frasi difficili. Scrivete le prime parole che vi verranno in mente. E dite cos’è, per voi, il vostro lavoro”. Il passaggio successivo sarà la formazione dei lavoratori: “Occorre ripristinare l’attenzione intellettuale, per far sorgere poi la dimensione contemplativa: basterebbe cambiare le condizioni umilianti e faticose in cui le persone povere lavorano, perché scoprano questo tesoro”. E si affretta a precisare: “Si dice che il lavoro è una preghiera: facile a dirsi, ma vero solo a certe condizioni. Solo associazioni di idee convenienti, rafforzate al centro dello spirito da emozioni intense, permettono al pensiero di meditare su Dio, senza nemmeno parole interiori, tramite i gesti del lavoro”. È la spiritualità del lavoro che alcuni Santi, come S. Arcangelo Tadini, hanno osato pensare e proporre. Le Suore Operaie, anche loro, provano oggi a calarsi nei panni di ogni donna e uomo che lavora e si scoprono, proprio lì, capaci di contemplazione.