C'è scritto speranza
È sera di Natale; mi verrebbe da aggiungere ma, sottovoce, “finalmente”.
Prima dell’ultima Messa, è lì, credo, che un prete si goda il Natale. Perché la festa è finita ma non ancora, la tanta gente si è fatta più distante dal presepio e il Bimbo, “finalmente”, è anche per me. È in questo preciso istante di intimità che arriva una donna, mai vista, immediatamente non la riconosco come straniera, ma capisco che lo è. Per lo meno, straniera finora a me stesso, ovviamente non a Lui. Si stupisce di quella parola scritta anche nella sua lingua, l’ucraino, e appesa a qualche foglio sull’albero di Natale, colorata dai bambini anche in altre lingue: speranza. Fotografa con il cellulare. Poi viene decisa verso di me, prima di sistemarsi nel banco per l’ultima Messa, la sua Messa. Dalla tasca, con un gesto materno, mi dona un portachiavi nel palmo della mia mano, a forma e a colore della bandiera ucraina e mi sussurra indicando l’albero, quasi si sentisse a casa: “C’è scritto speranza in ucraino. Mio figlio è al fronte. Si chiama Michele”. “Come l’angelo, mi viene da dire”.
“Preghi per lui, è in uno dei punti più intensi della guerra”. Pensavo di rinchiudere il presepio tutto attorno a me, ma è proprio del Natale essere di tutti e far spazio a tutti. Soprattutto a quelli che la vita mette fuori.