Automotive: il futuro
Pochi giorni fa, il Comitato interministeriale per la Transizione ecologica – cioè i ministri Cingolani, Giovannini e Giorgetti – ha deciso che, in linea con altri Paesi avanzati, anche in Italia il superamento delle automobili nuove a combustione interna dovrà avvenire entro il 2035. Lo sviluppo dei motori diesel e benzina, dati gli orizzonti temporali degli investimenti, ha, dunque, gli anni contati.
La notizia ha suscitato reazioni allarmate di una parte delle aziende del settore automotive, che hanno ventilato rischi per la tenuta del loro fatturato e dell’occupazione. Mettiamo in fila alcuni fatti.
Primo: la decarbonizzazione è solo la più recente delle trasformazioni creative-distruttive su cui da sempre si basa la crescita economica.
Secondo: l’elettrificazione dei mezzi di trasporto è uno sviluppo di mercato dovuto alla dinamica dei costi e della tecnologia, ai cambiamenti dei gusti e degli stili di vita, non determinato dalle decisioni dei governi o della Ue, che non fanno altro che adeguarsi alla direzione strategica di altri importanti blocchi economici.
Terzo: i veicoli per il trasporto su strada sono responsabili diretti di una quota significativa delle emissioni di gas serra e di inquinanti, oltre che – indirettamente – del consumo di enormi quantità di energia e di altre risorse. Pertanto, per abbattere tutte le esternalità negative occorre che si riducano gli spostamenti – anche quelli con mezzi elettrici, le cui emissioni non sono nulle – e che si prediligano mezzi a impatto ecologico minimo.
Quarto: le analisi LCA (Life Cycle Assessment), che misurano l’impronta ecologica totale dei prodotti e dei processi, confermano che un’auto elettrica pura già oggi – pur tenendo conto delle problematiche relative allo smaltimento delle batterie e all’accresciuto fabbisogno elettrico – consuma risorse inferiori di quasi tre volte rispetto all’equivalente auto convenzionale. Infine, l’Europa e l’Italia sono indietro nella corsa a diventare base produttiva di veicoli elettrici, settore in cui, al contrario, Cina e Stati Uniti hanno investito per tempo. Alle nostre chance concorrenziali non ha giovato l’arroccamento ideologico a difesa delle quote locali di mercato, mentre cresceva la capacità innovativa e competitiva di filiere estere, ormai agguerritissime su tutti i mercati, che non hanno perso tempo a polemizzare con il destino.