Accettarsi è un problema
Giorgia è perennemente scontenta di se stessa. Non si piace. Non le piace il suo carattere, perché il suo essere introversa le rende più difficile stabilire relazioni ed essere una buona conversatrice; infatti affronta con difficoltà ogni situazione sociale con persone con cui non è in confidenza, perché teme imbarazzanti silenzi. Dopo ogni riunione di lavoro è scontenta perché forse non ha detto la cosa giusta o perché non doveva dire quella cosa. E quindi chissà cosa pensano gli altri di lei. Si sente sempre sotto giudizio e non è mai sicura di dire o fare la cosa giusta.
Non si perdona niente. Rimugina spesso su ciò che ha detto o fatto. Non si sente mai all’altezza della situazione. È come se dovesse sempre essere perfetta. Giorgia non accetta buona parte di ciò che la caratterizza come persona. Ma accettare se stessi è imprescindibile per essere sereni. Si potrebbe dire che l’accettazione di se stessi è direttamente proporzionale alla serenità percepita. È anche segno di un buon equilibrio interiore. L’auto-accettazione è amare in maniera matura se stessi. Ci vuole maturità ad amare (non nel senso romanzato ed abusato del termine) un’altra persona, ma altrettanto se non di più, anche ad amare se stessi. E l’accettazione di se stessi dà tanta serenità. E questa serenità non può che essere riversata sugli altri, su coloro con cui veniamo in relazione, intima o superficiale che sia. infatti, “L’uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono agli altri”, (Giacomo Leopardi).
Amare se stessi può anche essere considerato un grande atto di umiltà, perché per farlo bisogna conciliarsi con i propri difetti, limiti, mancanze, imperfezioni, paure. Rinunciare a risultare sempre perfetti non può essere una prova di umiltà? Non si ambisce più ad essere sempre performanti, ma ci si accetta così come si è, imperfetti. Che poi è essere umani, perché l’umano non può che essere non perfetto. Pienamente condivisibile il pensiero di Erasmo da Rotterdam: “Una parte rilevante della felicità è voler essere quello che sei”. Il pensatore usa addirittura il termine felicità, che si può intendere come un grado ulteriore della serenità. Voler essere quello che si è, è il massimo a cui si possa aspirare nella vita. E’ la piena accettazione di se stessi. È non aspirare a niente di diverso o di più. È la piena sovrapposizione fra l’io ideale e quello reale? O è la pace raggiunta dalla piena accettazione dell’io reale? Presumibilmente la seconda opzione, perché la prima è irraggiungibile. E porrebbe in una infinita corsa per raggiungere una meta irraggiungibile.