Etiopia: conflitto senza sosta
La guerra in Etiopia dilaga incessantemente. Non sono bastate le ondate di arresti su base etnica delle scorse settimane: adesso, Abiy Ahmed ha deciso di svestirsi dei panni da Primo ministro e indossare la divisa militare, per guidare il suo esercito al fronte contro le milizie tigrine. Abbiamo intervistato Paolo Borruso, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica, per fare il punto su questa drammatica situazione.
La guerra in Etiopia si fa sempre più drammatica. Sarà una nuova crisi umanitaria?
La crisi umanitaria è già in atto ed è dovuta a un conflitto sorto per motivi di potere, aggravato da una crisi alimentare provocata dall’invasione di locuste. Il confronto armato tra il governo centrale di Addis Abeba, sostenuto dall’Eritrea, e il Fronte tigrino tiene in ostaggio la popolazione civile, che soffre maggiormente la crisi alimentare e va a ingrossare il numero dei profughi, che sconfinano nel vicino Sudan con una cifra che pare attestarsi attorno ai 25mila. Sembra che almeno il 30% di questi siano eritrei fuggiti dai quattro campi profughi nel Tigrai; la metà di questi sono minori non accompagnati, destinati probabilmente a proseguire la fuga verso la Libia in balia dei trafficanti di esseri umani. Mi preme sottolineare che questo conflitto ha riportato nodi irrisolti degli equilibri di potere. Il Tigrai ospita una minoranza (6%), quella tigrina, che ha sempre ricoperto un ruolo determinante. Dopo la guerra di resistenza, il Tplf (Tigray People’s Liberation Front) è di fatto rimasto al potere per 17 anni, guidato da Meles Zenawi, che ha introdotto il federalismo nel Paese. L’arrivo di Abiy Ahmed, di etnia oromo-amhara, nel 2018, ha progressivamente marginalizzato il gruppo tigrino. Benché insignito del premio Nobel per la pace nel 2019, a seguito del patto di riconciliazione con la confinante Eritrea di Isaias Afewerki, il Primo ministro ha riaffermato il potere centrale di Addis Abeba, opponendosi con determinazione alle forze centrifughe che minacciano l’unità dell’ex impero.
Che influenza avrà il conflitto sulle zone confinanti?
Il conflitto rischia di destabilizzare l’intera regione. Alcune unità dell’esercito federale, prima schierate in Somalia, rischiano di lasciare un vuoto di potere in Somalia, con una nuova diffusione di movimenti armati. Altra zona a rischio è il confine fra il Tigrai e il Sudan, dove si vanno riversando migliaia di profughi, compresi soldati federali. L’Eritrea ha scelto di condividere le strategie di azione di Abiy Ahmed. Contro il governo centrale si sono schierati anche i ribelli dell’Oromo Liberation Front. Inoltre, proprio all’inizio di novembre è sorta un’alleanza tra nove gruppi armati etiopi in funzione antigovernativa. La situazione è complicata.
E sulle politiche internazionali?
Il Corno d’Africa è di fatto il crocevia di due dinamiche contemporanee: quella del confronto tra i blocchi saudita-emiratino e turco-qatariota e quella della conflittualità regionale tra Etiopia, Sudan, Somalia, Kenya ed Eritrea. Sono linee di cooperazione e competizione. Non mancano, certo, le pressioni internazionali. In Italia, il presidente della Commissione Esteri del Senato Fassino ha chiesto l’invio di aiuti umanitari ai civili. Il conflitto infatti sta ponendo difficoltà anche ai corridoi umanitari concordati da Comunità di Sant’Egidio, Chiesa valdese, Chiese evangeliche e la Cei con il governo etiopico.
L’impressione è che la guerra etiope sia avvolta in un “blackout informativo”. Si tratta di lasciare ancora una volta l’Africa nel dimenticatoio?
Il blackout informativo, purtroppo, esiste e ostacola interventi esterni. Nonostante le denunce dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, di “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” nel Tigray, l’appello per la fine delle ostilità e l’accesso umanitario nella regione, Russia, Cina e India hanno posto il veto, sostenendo che la questione è un affare interno all’Etiopia, dunque non meritevole di una presa di posizione a livello internazionale. D’altro lato, di fronte alla mancata coesione internazionale, c’è lo sforzo di papa Francesco per richiamare le parti avverse all’urgenza di porre fine alle ostilità. In uno scenario come quello attuale, segnato da sconfinamenti sempre più globali di fenomeni locali, il conflitto va assumendo tratti drammatici anche per le ricadute esterne alla regione: si pensi solo alla tragedia dei profughi, che vanno aumentando vertiginosamente, destinati a riversarsi sulle coste europee. In questa prospettiva l’Italia, se sostenuta dall’Europa, può giocare un ruolo decisivo. Accanto alla fine delle ostilità, l’emergenza umanitaria rimane la questione più urgente da affrontare.