Siria: dopo la guerra, la povertà
Su Vatican News un'interessante intervista al nunzio card Zenari sulla situazione del Paese devastato da oltre dieci anni di guerra
Il card. Mario Zenari è dal 2008 nunzio apostolico in Siria, da qualche giorno è rientrato a Roma per partecipare alla plenaria della Roaco, il braccio operativo dell'assistenza della Santa Sede alle Chiese Orientali durante la quale ha illustrato la situazione attuale del Paese, teatro di scontri tra cinque eserciti esteri, diviso al suo interno al punto che ci sono regioni che usano già valute diversa, e oggi alle prese con una povertà endemica, con embarghi e con la crisi portata dal Covid-19. Al sito Vatican News, che lo ha incontrato, il card Zenari ha parlato senza mezzi termini del dramma di una popolazione salva dai bombardamenti che hanno seminato per un decennio morte e distruzione ma ora “strangolata” da una povertà che la costringe alla fame. Di seguito l’interessante intervista rilasciata ai media vaticani.
Eminenza, dopo oltre dieci anni di guerra e devastazione in Siria, si vede un miglioramento o la situazione è allo stallo oppure addirittura peggiorata?
Purtroppo miglioramenti non ce ne sono. Si può dire che in alcune zone della Siria non cadono più bombe, eccetto nel nord-ovest, nella provincia di Idlib, dove ci sono di tanto in tanto degli scontri, però, come ripeto spesso, nel Paese è scoppiata una terribile bomba che colpisce – secondo i dati delle Nazioni Unite – circa il 90 per cento della popolazione. È la bomba della povertà, che riduce i siriani a vivere sotto la soglia di povertà, perché dopo dieci anni di guerra c’è distruzione, non c’è ricostruzione, non si vede ancora l’avvio economico e il processo di pace è fermo. E intanto la povertà avanza molto velocemente. Per esempio, a Damasco quando esco vedo scene che prima non vedevo, come le code di persone davanti ai panifici che vendono il pane a prezzi sovvenzionati dallo Stato, visto che la povera gente non ha a disposizione soldi. Si vedono pure lunghe code di auto ferme ai distributori di benzina e benzina non ce n’è… Immagini simili non si vedevano neanche durante il periodo più duro della guerra. La popolazione chiama questo periodo così critico la “guerra economica”. Una guerra che veramente strangola la popolazione.
A questo si aggiungono anche le sanzioni…
Sì, quelle colpiscono gravemente e frenano la ripresa economica. Assieme alle sanzioni si aggiunge il problema della corruzione crescente, i casi di mal governo… Da un paio di anni circa, a colpire duramente la Siria è anche la crisi libanese, soprattutto nel settore finanziario, che si ripercuote con effetti negativi anche su progetti umanitari che ogni diocesi cerca di portare avanti. Effetti negativi che, naturalmente, provengono anche dalla pandemia universale. Questo fa sì che un altro malanno grava sulla Siria e cioè un oblio, una coltre di silenzio. Si parla molto raramente della Siria quando invece ci sarebbe urgenza di parlarne, perché se – ci auguriamo di no – il processo di pace, con l’aiuto della comunità internazionale, non si sblocca, se non si mette in moto la ricostruzione e l’avvio economico, la Siria finisca strangolata con effetti devastanti per i suoi abitanti.
Alla plenaria della Roaco, alla quale è intervenuto, quali istanze ha presentato, quali proposte ha avanzato?
Io sono un veterano ormai della Roaco. Ero insieme a colleghi nunzi venuti da Georgia, Etiopia e altri Paesi, erano per così dire “freschi, freschi” coi loro problemi. Io da dieci anni rappresento la Siria, quindi ormai da dieci anni mi vedono venire a stendere la mano per questi aiuti. Quest’anno non ho steso solo una mano ma due, perché la situazione – come ho detto – è piuttosto critica. Le statistiche sul livello di povertà dell’Onu sono davvero impressionanti: la Siria è in cima alle nazioni che soffrono. Quindi quest’anno sono venuto alla Roaco e ho aperto le due mani… I loro sono ovviamente aiuti preziosi, ma comunque gocce d’acqua nel deserto. Anche gli aiuti umanitari che arrivano da questi Paesi che hanno imposto le sanzioni ma che dicono di voler continuare ad aiutare - seppur ci siano sempre degli intoppi -, sono dei rubinetti nel deserto. Per questo deserto che è la Siria servirebbe invece un grande fiume.
E cosa bisogna fare per aprire questo fiume, anche e soprattutto a livello politico?
L’inviato speciale dell’Onu per la Siria continua a ripetere che prima di tutto bisogna mettere in moto il processo di pace, secondo la Risoluzione dell’Onu 2254. Questo processo è fermo, bisogna perciò sbloccarlo. E bisogna far cadere la sindrome del “You First”, cioè che le parti aspettano che l’altro cominci. Tutte le parti coinvolte nel processo di pace, anche le varie capitali, devono mettere contemporaneamente sul tavolo delle offerte. Offerte di buona volontà. Io dico sempre che sono coinvolte soprattutto tre capitali: Washington, Bruxelles, come Unione Europea, e anche Damasco, che deve far qualcosa, dei gesti di buona volontà specie nel campo umanitario. Se tutti, oltre a queste tre capitali, aspettano che sia l’altro a cominciare non si va da nessuna parte, si rimane bloccati. E qui occorre un intervento della comunità internazionale, una diplomazia allargata e costruttiva che spinga le parti a mettersi in moto.