Peppo in missione con la famiglia
Giuseppe Peppo Piovanelli e la moglie Adriana sono missionari in Ecuador da 44 anni. In queste settimane Peppo è a Brescia per portare la sua testimonianza, e noi siamo riusciti a rivolgergli qualche domanda.
Peppo, come è nata l’idea di dedicarsi agli altri in un Paese così lontano?
Non è facile rispondere a questa domanda. Io, nel periodo sessantottino, avevo vent’anni e ho vissuto la contestazione e la voglia di cambiare il mondo. Avevo tanti intessi, ma alla fine mi mancava sempre qualcosa; finché un giorno ho rivisto un vecchio amico, appena tornato dal Brasile, che era lì per aiutare nel lebbrosario di Campo Grande. Nel chiacchierare mi ha detto che di lì a qualche giorno il Mato Grosso avrebbe organizzato un campo raccolta a Brescia. Così io e Adriana siamo andati e per tre giorni, sotto la pioggia, abbiamo raccolto vetro e ferro. Grazie a questa esperienza qualcosa in me è cambiato: un campo tira l’altro, e il mio motto è diventato “fatti, non parole”. Nel 1974 Adriana ha passato sei mesi in Brasile. Quando è tornata ci siamo sposati e nel 1977 siamo partiti alla volta delle Ande dell’Ecuador, dove dovevamo restare per due anni.
E come è stato il primo impatto?
Le persone non ci hanno subito accolto a braccia aperte. Però con il tempo ci siamo fatti conoscere e abbiamo potuto entrare a far parte di una realtà bellissima, formata da gente molto attaccata alla sua terra. Nel 1978 nasce il primo figlio di Adriana e Peppo, Francesco. A quel punto i due decidono di restare in Ecuador “ancora un po’”, un periodo che si trasforma in una vita intera, arricchita dal dono di altre due figlie, Agnese e Rachele, e di cinque nipoti.
Ci può raccontare la scelta di rimanere in Ecuador così tanto?
Semplicemente ci siamo lasciati prendere. All’inizio eravamo noi a gestire ‘la porta’ da aprire ai poveri. Ma alla fine loro l’hanno sfondata, e tutti i nostri programmi sono saltati, e meno male. Faccio fatica a spiegarlo: restare in missione non è stata una scelta presa a tavolino. No, ci siamo lasciati andare alle esigenze di queste persone, che alla fine sono la nostra più grande ricchezza.
L’ambiente sociale era povero. Non è un caso se vi siete concentrati così tanto sull’aspetto educativo, anche con una scuola d’arte che permette ai ragazzi di imparare un mestiere.
Esatto. Questa idea è nata nel 1988 grazie a padre Ugo de Censi, fondatore dell’operazione Mato Grosso. La scuola permette ai ragazzi di vivere con noi dal lunedì al venerdì e di imparare, in sei anni, l’arte di lavorare il legno e la pietra. Il problema è che quest’anno saremo costretti a fermarci. Siamo rimasti un po’ soli e non abbiamo i fondi sufficienti. Prossimamente cercheremo uno sponsor che ci permetta di ripartire.
Se penso alla realtà dell’Ecuador, mi viene in mente una società ancora popolare, anche dal punto di vista religioso. È così?
Si, soprattutto per quanto riguarda la classe più anziana. Diverso è il discorso per la gioventù: il progresso tecnologico ha avuto un forte impatto sulla vita dei ragazzi anche in Ecuador. Io credo che la nostra realtà sia come un treno ad altissima velocità, guidato da non si sa bene chi. E questo non fa altro che allontanarci da Dio.
Prima ci diceva che, durante la pandemia, ha avuto l’impressione che la Chiesa si sia un po’ addormentata...
È così. Con il problema del Covid si è cominciato a fare tutto online, ma io so che questo non basta. Le persone hanno bisogno di contatto, hanno necessità che tu stia fisicamente al loro fianco. La Chiesa deve stare a fianco dei poveri. Certo, costa sacrificio e fatica, ma è questa la nostra missione.
Un’ultima cosa: può salutare i nostri lettori con una parola: che cosa sceglie?
Se me lo avessi chiesto quando sono partito anni fa, ti avrei detto “giustizia”. Ora che però ho conosciuto quelle persone e mi sono innamorato di loro, ti dico “carità”, che è motore di tutto.