La prostituzione legale non elimina la tratta
Il caso tedesco sta lì a dimostrarlo: fallito il teorema che si tratti di un lavoro come un altro. Su circa 400mila lavoratrici del sesso presenti nel Paese solo 44 risultano iscritte alla previdenza sociale. Inoltre, grazie alla liberalizzazione, la Germania è ai primi posti nella classifica dei Paesi europei in cui il numero delle vittime della tratta è maggiore
Non per l’argomento trattato in sé - e la copertina scelta non poteva essere più esplicita, quasi disturbante, nel rendere l’oscenità del rapporto donna/merce acquistabile - ma per il lancinante spaccato di realtà di quello che è a tutti gli effetti un mercato legale di esseri umani. Inquadrare il fenomeno vuol dire prima di tutto parlare di soldi, che sono oggettivamente tanti per non far gola a troppa gente.
La Germania ha legalizzato la prostituzione nel 2002 e da quel momento le “case chiuse” (per usare un eufemismo) sono aumentate esponenzialmente generando un giro d’affari abnorme. Nei primi due anni l’industria della prostituzione è riuscita a raggiungere lo stupefacente fatturato di sei miliardi di euro, per raggiungere i 15 miliardi di oggi. Praticamente la metà di una manovra finanziaria. La leva economica è un argomento così stringente, ricorda l’articolo, che quando nel 2013 la Cancelliera Angela Merkel ha provato a sollevare il problema ha dovuto desistere, sconfitta dall’entità del dibattito. Però qui non è solo questione di soldi, si parla di persone, di donne spesso giovanissime che, salvo rarissimi casi, sono tutt’altro che libere nel dover praticare quello che con poca fantasia e molto cinismo è derubricato a “mestiere più antico del mondo”. E il nocciolo è proprio questo, la nozione di equivalenza dei mestieri.
L’idea alla base della legge di legalizzazione tedesca, sostenuta e votata dal governo Shröeder, era di rendere la prostituzione un’attività come le altre, un lavoro con tutte le garanzie del caso: contratto, assicurazione, tutele salariali, pensione, servizi sociali. Come se fare la prostituta, l’architetto o l’impiegata potessero essere opzioni ugualmente valutabili da una donna. Tredici anni dopo, pur in assenza di statistiche affidabili, è evidente che qualcosa non ha funzionato. Prendendo come base i dati dell’associazione berlinese Hydra, che offre servizi di consulenza alle prostitute, su circa 400mila lavoratrici del sesso presenti nel Paese solo 44 risultano iscritte alla previdenza sociale. E la ragione è abbastanza ovvia: chi vorrebbe una simile carriera nel suo curriculum? Spesso le famiglie non hanno idea della “professione” svolta dalle proprie figlie, o madri, e la bugia che ci si racconta più spesso è sempre la stessa: “Tanto smetterò presto”. Invece le settimane diventano mesi, poi anni, avvolte nelle spire di un sistema che non lascia scampo e dove il miraggio dei soldi “facili” si scontra con la durezza di una realtà che annienta, umilia, annichilisce.
Le storie narrate rivelano lo sfruttamento dietro l’apparenza dell’autonomia. E se c’è sfruttamento c’è qualcuno che si arricchisce. Di fatto, nel 2002 Berlino ha approvato una delle leggi più liberali del mondo nel settore, vagheggiando manager al posto degli aguzzini. Invece, lungi dal rendere le donne più libere e più sicure, il contesto favorevole ha attirato i trafficanti, pronti a soddisfare le richieste di migliaia di turisti di questo discount del sesso. E così la Germania contende ai Paesi Bassi il poco invidiabile primato di essere ai primi posti nella classifica dei paesi europei in cui il numero delle vittime della tratta è maggiore. Eppure nel febbraio 2014 il Parlamento di Strasburgo ha approvato una risoluzione che chiede di punire chi acquista servizi sessuali, dando seguito alla direttiva che impone agli Stati di “ridurre la domanda” che alimenta il traffico di esseri umani. Se le modalità di intervento ci sono, si può anche fare lo sforzo di usarle. Ce lo chiede l’Europa, stavolta a titolo di favore.
EMANUELA VINAI (AGENSIR)
27 mar 2015 00:00