La persecuzione non si ferma alle frontiere
Una chiesa profuga, composta da cristiani costretti ad abbandonare le proprie case, città, paesi: è un fenomeno poco conosciuto quello che emerge dal rapporto di Porte Aperte/Open Doors, intitolato “Chiesa profuga” e che dimostra una relazione tra la persecuzione religiosa dei cristiani e la condizione di sfollato interno o di rifugiato. Esiste, infatti, una forte sovrapposizione tra Paesi di provenienza dei rifugiati e Paesi noti come peggiori violatori della libertà religiosa al mondo. Il quadro globale della persecuzione religiosa, si legge nel documento, offrirà sempre e solo una visione parziale, se ci si limiterà a considerare la Chiesa statica. La persecuzione religiosa, infatti, “non si ferma necessariamente alle frontiere”. Il Rapporto – pubblicato in vista della Giornata Mondiale del Rifugiato (20 giugno) e in concomitanza con le ultime cifre dell’Unhcr indicanti in 100 milioni il numero di sfollati nel mondo – parla dello “sfollamento dei cristiani dalle loro case e comunità” come di “una strategia deliberata di persecuzione religiosa, volta a cancellare la presenza della cristianità dalle regioni in cui la persecuzione è più intensa”. Secondo il Report, in 58 dei primi 76 paesi della World Watch List (WWL), (che mostra i livelli di persecuzione alti, molto alti o estremi affrontati dai cristiani, ndr.), i cristiani dichiarano di essere stati forzatamente sfollati dalle proprie case a causa della propria identità religiosa – come fattore unico o contributivo. Nel contesto dello sfollamento, si legge nel Report, violenza psicologica e insicurezza fisica sono sfide affrontate da tutti gli sfollati interni e rifugiati, ma la forma e l’intensità possono essere determinate dalla loro fede e attività cristiana. Si tratta di situazioni di diverso tipo, funzionari governativi, membri di diverse comunità, gruppi religiosi violenti che prendono di mira i cristiani sfollati. A influire sull’intensità e sulla forma di persecuzione incontrata sono l’età, il genere, il credo di provenienza, l’etnicità e la posizione pubblica di una persona.
Che cosa porta i cristiani a fuggire? A livello globale, i principali agenti a determinare lo spostamento dei cristiani sono quattro: “la pressione familiare: coloro che si sono convertiti al cristianesimo hanno spesso riferito di essere stati estromessi dalle famiglie, minacciati di morte e sottoposti a pressioni così forti da considerare la fuga come l’unica scelta. La pressione statale: gli agenti governativi a livello nazionale e locale hanno il potere e le risorse per causare danni ai cristiani, incluso l’utilizzo di leggi che trattano temi quali la blasfemia, il matrimonio e la libertà di riunione”. Vi è poi “la pressione comunitaria: oltre alla famiglia, anche la comunità locale può rappresentare una potente e costante fonte di pressione, in particolare perché spesso controlla l’accesso alle risorse comunitarie”. Quarto fattore è dato dalla presenza di gruppi religiosi violenti: “in diversi Paesi in tutto il mondo, gruppi religiosi violenti continuano a prendere di mira e terrorizzare minoranze religiose come i cristiani, spesso nel tentativo di sradicarli dalla regione in cui operano. Questi gruppi proliferano in contesti caratterizzati da conflitto, insicurezza e illegalità”.
Analisi regionale delle cause. Nell’Africa subsahariana, secondo il Rapporto, i principali Paesi che generano rifugiati/sfollati interni cristiani sono Camerun, Repubblica Democratica del Congo (Rdc), Eritrea e Nigeria. Gruppi religiosi violenti, prevalentemente estremisti islamici, come al-Shabaab, Boko Haram, Stato islamico nella provincia dell’Africa, creano ambienti altamente pericolosi per i cristiani. Il ricorso non è solo ad attacchi fisici e sessuali, ma anche alla presa di mira di proprietà, bestiame e terreni dei cristiani. In Medio Oriente e Nord Africa sono Siria e Iran i Paesi che generano il maggior numero di rifugiati/sfollati interni cristiani. Quelli che lasciano il proprio paese per ragioni prevalentemente legate alla fede sono convertiti dall’Islam. Per loro, la minaccia principale può essere costituita dai familiari e dalle comunità di origine. Passando all’Asia, “Afghanistan, Myanmar e Pakistan sono i Paesi con il maggior numero di rifugiati/sfollati interni cristiani. Anche qui le principali fonti di pressione che portano le persone ad abbandonare le proprie case sono famiglia e comunità locale, con una forte pressione su chi si converte al cristianesimo da un’altra religione. Tali pressioni sono particolarmente evidenti in Pakistan, dove le minoranze religiose vivono sotto l’ombra di leggi contro l’apostasia e la blasfemia”. L’instabilità politica e l’ascesa di gruppi religiosi estremisti alimenta lo sfollamento nella regione, particolarmente in Myanmar. Migliaia di persone sono state costrette a fuggire nei Paesi confinanti, o a diventare sfollati interni. Tra essi anche altre minoranze, come i Rohingya. Nello sfollamento su larga scala dei Rohingya (la maggioranza dei quali è musulmana) dal Myanmar al Bangladesh, vi è un esiguo numero di convertiti cristiani che si trova ad affrontare un ulteriore livello di vulnerabilità a causa della fede. In America Latina, i cristiani sono primariamente colpiti da insicurezza e criminalità. Sebbene tutti i membri della comunità subiscano gli effetti della presenza di bande e attività criminali, i cristiani più attivi – particolarmente i pastori vengono presi di mira se la loro fede li induce a parlare contro l’autorità delle bande locali o a evangelizzare membri delle bande stesse. I cristiani indigeni in Messico e Colombia, quando si convertono, perdono il diritto ad avere voce nella comunità.
Impatto dello sfollamento. Le difficoltà del lavorare con una popolazione transitoria e fortemente eterogenea, si legge nel Report, rendono l’identificazione degli abusi collegati alla fede ancora più complessa di quando le comunità religiose emarginate si trovano nel proprio contesto di origine. Così “per avere un quadro completo sulla persecuzione religiosa, dobbiamo guardare sia alla Chiesa in patria che a quella in fuga – afferma Helene Fisher, specialista di persecuzione globale di genere di Porte Aperte – parte di questa strategia deliberata consiste nel dividere le comunità religiose. Lo sfollamento non è solo un sottoprodotto della persecuzione, ma in realtà, in molti casi, è una parte intenzionale di una strategia più ampia per sradicare il cristianesimo dalla comunità o dal Paese”. L’impatto a lungo termine dello sfollamento, secondo Porte Aperte, può cambiare radicalmente il volto di un Paese per generazioni. Ad esempio, in Iraq c’era più di un milione di cristiani prima che Saddam Hussein salisse al potere. Ora sono solo 166.000. Il numero di cristiani è diminuito durante il suo governo, ma la persecuzione nella regione è aumentata bruscamente dopo il 2003 e le pressioni sono arrivate al culmine nel 2014 con l’ascesa dell’Isis.
Appello. Per fare fronte alle molestie, all’emarginazione e alle vulnerabilità che i rifugiati sperimentano a causa della fede, Porte Aperte/Open Doors chiede, tra le varie cose, alla Comunità Internazionale di “accertarsi dell’integrazione, in tutti i programmi antidiscriminazione volti a proteggere e promuovere i diritti dei rifugiati, dei principi della Libertà di Credo e Religione, di garantire una partecipazione significativa dei rifugiati fuggiti da persecuzioni religiose nella progettazione, valutazione e attuazione di programmi e aiuti mirati e di includere la religione quale fattore di vulnerabilità in ogni valutazione effettuata nella pianificazione e nella programmazione per i rifugiati”. Necessario, inoltre, il coinvolgimento delle organizzazioni religiose locali, sia dei Paesi ospitanti che di quelli di origine, nella discussione sulla protezione e sull’assistenza dei rifugiati. Deve essere, infine, garantito, dai Paesi ospitanti, il principio di non refoulement previsto dalla Convenzione del 1951 e dal Protocollo del 1967. Secondo Eva Brown, Senior Specific Religious Persecution Analyst di Open Doors, “In alcuni casi, i governi e persino le organizzazioni internazionali con buone intenzioni possono purtroppo essere complici nell’intensificare la discriminazione contro i cristiani sfollati. Ecco perché la consapevolezza di questa vulnerabilità a più livelli è vitale, in modo da poter affrontare al meglio i bisogni degli sfollati e dei rifugiati emarginati”.