Case di riposo o lager?
L'installazione di telecamere come deterrente, l'introduzione di un'aggravante per i reati commessi nelle strutture assistenziali, una presenza costante e strutturata del volontariato, l’istituzione di un Albo nazionale del personale professionalizzato e certificato e l’istituzione di un “Garante della fragilità” con competenze su anziani, bambini, disabili. Sono le proposte dell’associazione Auser per tentare di contrastare le violenze agli anziani ospitati nelle case di riposo. Indicazioni condivise anche da altre associazioni e da don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, che tuttavia avverte: “La vera questione è la crisi antropologica. Che valore diamo alla persona, ne sappiamo accettare il limite?”
“Indignarsi non basta”, dice il presidente nazionale Enzo Costa. Di qui cinque indicazioni concrete. Anzitutto l’installazione di telecamere negli istituti come deterrente. Costa pensa inoltre ad un’aggravante di pena e fa riferimento a “un disegno di legge presentato dal ministro Lorenzin in Senato, che prevede un aumento di un terzo della pena per chi commette questi atti all’interno delle strutture socio sanitarie, fermo da oltre tre anni”. Si tratta del disegno di legge 1324 delega al Governo in materia tra l’altro, di riordino delle professioni sanitarie e tutela della salute. L’art. 6 del Capo II del provvedimento introduce una circostanza aggravante all’art. 61 del Codice penale per i reati commessi contro persone ricoverate nelle case di riposo, particolarmente fragili e quindi più esposte e indifese. Per il presidente dell’Auser, inoltre, una “presenza costante e strutturata del volontariato aiuterebbe a migliorare i servizi alle persone e garantirebbe più trasparenza”. Ulteriore proposta, l’istituzione di un Albo nazionale del personale professionalizzato e certificato. “Ad oggi – spiega – non esiste alcun Albo per chi si occupa di servizi alla persona, badanti e operatori sanitari, e troppo spesso personale senza nessuna qualifica viene trovato ad operare, assunto o in nero, in strutture autorizzate e non”. Infine, il suggerimento di “estendere i compiti della figura del Garante per l’infanzia a tutte le persone fragili, anche anziani e disabili”.
In linea di massima d’accordo, pur con qualche riserva, don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, che pur invitando a non dimenticare le “eccellenze presenti sul territorio”, sottolinea come il punto nevralgico sia costituito dalla formazione degli operatori: “se è solo di tipo tecnico e non prevede competenze relazionali e capacità di accettazione dell’invecchiamento e del limite, può diventare un fattore di rischio”. Don Arice non si nasconde il problema dell’eccessivo carico di lavoro del personale ma, puntualizza, “non può in alcun caso costituire un’attenuante né tantomeno una giustificazione. Gli operatori devono possedere idonei requisiti psicoattitudinali e il loro ‘equilibrio’ va verificato nel tempo”. Sì all’introduzione dell’aggravante, anche se “l’iperprotezione normativa non impedisce episodi aberranti”; accanto alla responsabilità degli autori dei maltrattamenti esiste peraltro anche “un insufficiente controllo da parte dei responsabili delle strutture che non hanno saputo vigilare e non si sono accorti del disagio di alcuni operatori”.
Il cuore del problema è tuttavia “la crisi antropologica. Che valore diamo alla persona, ne sappiamo accettare il limite?”, e qui il sacerdote cita un’affermazione di Benedetto XVI, secondo il quale “una società che non sa prendersi cura degli anziani è disumana e crudele”. Per Sofia Rosso, presidente di Anteas (Associazione nazionale tutte le età attive per la solidarietà ), “occorrerebbero maggiori investimenti nel sostegno alle famiglie che scelgono di assistere un proprio caro a casa”. Usurante, non gratificante “perché non mirato a un obiettivo di guarigione, spesso scelto per necessità da persone non sufficientemente motivate”, il lavoro di assistenza può generare stanchezza e frustrazione che “se non elaborate, si trasformano in rabbia”. Di qui, per evitare cortocircuiti, la necessità di “un ambito strutturato e ‘guidato’ da esperti, in cui il personale possa portare e condividere questi sentimenti negativi”, spiega la presidente di Anteas, già infermiera coordinatrice di un servizio psichiatrico residenziale e territoriale nel quale esisteva lo “sfogatoio per il personale, modello esportabile nelle strutture per anziani”.
Tuttavia, un ruolo strategico nella prevenzione lo rivestono “formazione, motivazione e consapevolezza del ruolo”. Un invito, infine, a valorizzare le eccellenze: “Esistono esperienze straordinarie di dedizione, assistenza amorevole. Non si parla mai del buono che c’è, ma è molto anche se non fa rumore. Occorre farlo emergere e dargli voce”.
L’abuso, spiega Licia Boccaletti, coordinatrice progetti della cooperativa sociale Anziani e non solo, “ha diverse forme e sfumature e viene perpetrato anche nel silenzio delle mura domestiche”. Oltre ai casi “estremi” di maltrattamento segnalati dai media, molti anziani subiscono quotidianamente sottili forme di incuria, abbandono o “depersonalizzazione” legate ad una cultura “che considera la persona in età avanzata un peso e un problema”. Parole d’ordine “formazione”, “contrasto dell’omertà in casa e nei luoghi di cura”, promozione “anche attraverso campagne di sensibilizzazione di un’immagine positiva dell’invecchiamento”. L’introduzione dell’aggravante può costituire un deterrente, ma servirebbe soprattutto a dare “un segnale politico di attenzione, costituirebbe una prima ed esplicita presa di posizione”.