Burundi: cronache quotidiane
Da Kiremba la toccante testimonianza di Luigi Aziani
Da un po’ di tempo, trovare carburante in Burundi è come vincere un terno al lotto. In capitale c’è qualche probabilità in più di riuscirci, ma dove sono io, “cacciato in tanta malora” a Kiremba, bisogna sperare nel classico colpo di fortuna. Intanto il distributore più vicino si trova a 30 km di distanza, nella cittadina di Ngozi. Inutile azzardarsi ad andarvi se non si è sicuri di trovare carburante. Vero è che c’è sempre la scappatoia del mercato nero, florido come ovunque. Funziona così: tu arrivi alla pompa del distributore, dove l’addetto è spaparanzato su una sedia traballante e prima ancora che tu spenga il motore ti fa cenno con la mano che il carburante è finito.
A quel punto, mentre stai per allontanarti sconsolato, si avvicina il ragazzotto di turno che ti sussurra al finestrino: “Se ti serve gasolio, io ce l’ho”. Allora iniziano le trattative; lui spara alto, 80.000 fbu per una tanica da 20 litri, che è il doppio del prezzo normale. Discutendo un po’ si riesce a scendere fino a 60.000, che comunque è una volta e mezzo il valore della merce in questione.
La cosa mi secca. Ma mi incuriosisce anche, perché mi chiedo sempre come fanno alcuni ad avere il carburante se tutte le pompe dei distributori sono vuote. Un giorno uno di questi ragazzotti in vena di confidenze mi ha raccontato il trucco.
“Hai visto i camion che stanno lavorando lungo la strada?” Mi chiede. E chi non li ha visti? Ce ne sono una dozzina che fanno la spola per eseguire lavori di riparazione che vanno avanti da mesi. La ditta che fa i lavori è statale, e quindi per loro il carburante c’è sempre.
“Noi sappiamo dove sono parcheggiati i camion durante la notte – mi confessa il ragazzo che evidentemente fa parte di una banda organizzata – e andiamo a svuotargli i serbatoi…”.
Faccio finta di non aver sentito e vado avanti con le mie contrattazioni sul prezzo: dopotutto io la macchina non la uso per andare a divertirmi, ma per un Ospedale, e da dove venga quel carburante poco mi importa.
Stamattina però ero sicuro che avrei trovato il prezioso gasolio, perché prima di riempire il serbatoio con il resto della riserva e caricare sei taniche vuote in macchina, ho chiamato un amico che sta a Ngozi. “Vieni tranquillo – mi ha rassicurato – ho fatto il pieno ieri e al distributore c’è tutto il carburante che vuoi”.
Quaranta minuti più tardi sono davanti alla pompa del distributore. Ma la scena che si ripete è quella consueta dell’addetto che alza pigramente una mano per indicarmi col pollice verso che il carburante è finito. Qualche metro più avanti c’è anche il solito ragazzotto in agguato, ma tutto l’insieme della faccenda incomincia a insospettirmi.
Chiamo l’amministratrice dell’Ospedale, più abituata di me a districarsi in questo genere di situazioni. “Cinque minuti e ti richiamo”, mi dice in tono ottimistico. Poco dopo il mio telefonino lancia un grido. “Ho parlato con una certa signora…: devi andare nel suo negozio di chincaglierie, e lei ti spiegherà come fare”.
La cosa sembra fin troppo facile; mi dirigo alla bottega “ChezNtazimba” dove una donna corpulenta mi attende sulla soglia. “Quanti litri ti servono?” Mi domanda senza preamboli. “Se possibile 120”, azzardo timidamente. “Ora vedo cosa posso fare”, e prende in mano a sua volta il telefono mettendosi a parlare in swahili con qualcuno all’altro capo del filo.
Finita la conversazione, chiama l’aiutante del negozio dandogli ordine di accompagnarmi. Mi aspetto che mi porti in qualche deposito nascosto, ma con mio stupore torniamo esattamente alla stessa pompa di carburante che avevo lasciato un quarto d’ora prima. Ora l’addetto, che ha subito notato da chi sono accompagnato, balza in piedi e mi riceve con un sorriso.
“Quanti litri capo?” Vorrei dirgli: “Riempimi i bidoni, cialtrone”, ma scelgo la versione soft: “Se riempi tutte e sei le mie taniche, ti offro una bottiglia di birra”.
Prima che finisca la frase sta già armeggiando con la pompa e in pochi minuti i miei bidoni sono pieni, senza che nessuno se ne stupisca o faccia domande che resterebbero senza risposta. Pago al prezzo normale della pompa, senza aggiungere un soldo, a parte la bottiglia promessa al benzinaio con il quale di colpo ho fatto amicizia.
Affare concluso e missione compiuta, ora posso prendere la via del ritorno.
Dei 30 km che mi separano da Kiremba, i primi 20 sono di strada asfaltata sulla quale la mia Toyota doppia cabina scivola veloce in mezzo a pendii coperti di piante di banane e di caffè.
Arrivo al bivio dove inizia la strada sterrata: da qui ho ancora venti minuti, da percorrere con la dovuta cautela per le buche che si sono accentuate con l’inizio della stagione delle piogge. Una donna sul ciglio della strada mi fa cenno che vuole un passaggio. Ha un bambino accovacciato sulla schiena, come si usa qui. L’unica parola che mi ripete, in kirundi, è: “Muganga, muganga!”, cioè: medico.
La faccio salire pensando che se dovesse fare a piedi la strada fino all’ Ospedale le ci vorrebbero non meno di due ore, e se quel bimbo è malato mi immagino in che condizioni ci arriverebbe.
Si siede davanti accanto a me, mettendosi il bambino sulle ginocchia: noto la sua preoccupazione, alleviata solo in parte dal sollievo per aver trovato un passaggio del tutto insperato. Facciamo qualche chilometro in silenzio. Il bimbo, che può avere poco più di un anno, né piange né si agita. A un tratto vedo che la mamma lo chiama, poi lo scuote: non risponde.
La sua agitazione non può che contagiarmi, per quanto cerchi di mantenere la calma. Il piede pigia sull’acceleratore con le taniche di gasolio sballottate nel cassone. La donna ormai è in preda al panico e inizia a piangere sommessamente. Qui è molto difficile veder piangere una persona adulta: devonomostrare che sono forti.
Con la coda dell’occhio, mentre devo fare attenzione a dove metto le ruote della macchina, scorgo il bambino in braccio alla mamma a peso morto, con le braccia penzoloni.
Ormai la donna è disperata: vedo che con un lembo del panno in cui è avvolta copre la testa del bambino, mentre con il dorso della mano si asciuga le lacrime che le rigano il volto. E’ finita!
Perché? Non è giusto! Non so se pregare o imprecare…Ancora due chilometri. Mille domande mi si accavallano nella testa frastornata. Perché questa donna ha cercato il medico così tardi? Quanti altri figli avrà a casa che l’aspettano? Che cosa deve significare per una madre vedersi morire tra le braccia il suo bambino? Come farà a raccontare la sua tragedia al marito, ai vicini, ai familiari?
Il motore ruggisce sull’ultima curva; la sagoma dell’ospedale appare in lontananza. Sfreccio davanti alla chiesa proprio mentre il campanile batte mezzogiorno. La gente allunga il collo incuriosita per vedere chi si trova con me dentro la macchina, intuendo che c’è qualcosa di grave.
Ecco il rettilineo dell’ospedale; a cinquanta metri dal cancello incomincio a suonare il clacson all’impazzata. La gente si sposta, i battenti del cancello si spalancano e la macchina si blocca davanti al Pronto Soccorso con uno stridio di freni.
Saltiamo giù, io davanti e la povera donna dietro, con in braccio il suo fagotto inerte. Scansiamo la fila dei malati che aspettano il loro turno; chiamo la capo sala che strappa il bimbo dalle braccia della mamma e lo stende sul lettino. Ha il corpo come una torcia, ma respira: Dio sia lodato!
L’infermiera cerca la vena del bimbo e gli inietta un antipiretico per abbassare la febbre, la mamma si asciuga le lacrime e riprende a sperare…
Non ho il coraggio di restare a guardare. Non so se il bimbo sia salvo: bisognerà attendere qualche ora, ma “forse” ce la farà.
Dopo due ore ritorno in punta di piedi e con il cuore in gola: scosto una dopo l’altra le tende che separano i letti del Pronto Soccorso, finché scorgo la donna su un materasso smunto, con il bambino che piange accanto a lei. Piange ma si è ripreso, e la mamma mi si avvicina e mi afferra commossa le mani per ringraziarmi.
Penso che quel che ho fatto è solo il minimo che potessi fare. E che, se avessi trovato subito il carburante al distributore e fossi rientrato un’ora prima, forse quel bimbo non sarebbe mai arrivato vivo all’ospedale.