Pace, sviluppo e solidarietà
Dal volume su mons. Foresti edito dal Ce.Doc., che sarà presentato il 4 novembre a Chiari, un suo intervento in occasione della Veglia per la Pace del 31 dicembre 1986
“La pace è sempre un dono di Dio; eppure, essa dipende anche da noi. E le chiavi della pace sono in nostro potere. Sta a noi usarle per aprire tutte le porte”. Con queste parole Giovanni Paolo II conclude il Suo messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale della Pace: “Le chiavi della pace sono in nostro potere”.
Sviluppo e solidarietà. Quali sono queste simboliche chiavi? Lo sviluppo e la solidarietà. Paolo VI dimostrava di conoscerle già bene, quando, vent’anni fa, istituiva la Giornata mondiale per la pace e, nello stesso anno, promulgava la solenne Enciclica sociale Populorum Progressio. Infatti, egli poteva chiamare la intera umanità, e non soltanto la Chiesa cattolica, a edificare la pace, poiché era ben consapevole dell’unità della stirpe umana e del conseguente imperativo etico (la solidarietà) derivante dal necessario rispetto di tale unità. Scriveva: “I nostri comuni vincoli di umanità esigono che si viva in armonia e che si promuova ciò che è bene l’uno per l’altro” (n. 7). Ecco, essere questa fitta rete di rapporti armoniosi significa affermare concretamente la solidarietà universale, significa edificare la pace universale.
Dalla cultura della guerra alla cultura della pace. Dalla cultura della guerra, e di ciò che ne alimenta i germi venefici, occorre passare alla cultura della pace, intesa come il modo di concepire i rapporti umani (interpersonali, interclassisti, internazionali) come “relazioni familiari”, in armonia con l’unicità della stirpe umana. Va, dunque, continuamente “coltivata” questa idea, questa concezione della unicità del genere umano; va, dunque, ribadito fortemente che non esiste un’apartheid che possa trovare una giustificazione nel diverso colore della pelle, nella disparità del censo, nel maggior o minore cammino di un popolo in campo scientifico, artistico, e umanistico in genere. Non è inutile insistere su tale tema, attesa la perseveranza, anche fra noi, di un certo razzismo “istintivo”, duro a morire, come ogni peccato d’orgoglio diventato retaggio ancestrale. Sia lo sviluppo dell’idea sia quello dell’azione si scontra con inevitabili ostacoli. Occorrono tenacia e perseveranza per viaggiare verso la meta. Se mai, dopo eventuali tempi di stanca, è necessaria la ripresa del fervore. Soprattutto dagli uomini va tenuta sempre viva la speranza del successo, la convinzione che, sia pure con passo lento, il traguardo verrà raggiunto.
La pace, e dunque la solidarietà che ne spalanca la porta, sono possibili. Papa Paolo VI l’ha gridato al mondo intero. Con calore profetico ha trasformato questa sua convinzione in una supplica: “Mai più, mai più la guerra!”.
E ora Giovanni Paolo II incontra l’uomo nelle città e sulle montagne, anzi lo insegue oltre gli oceani per ripetergli che esso è autentico soltanto se è uomo di pace; per indicargli che Cristo, il Redentore dell’uomo, ha “discorsi di pace e non di afflizione”.