La scomparsa di Boris Pahor
“Nessuno può negare che nel fondo del nostro essere siamo inconsciamente sollevati se un pericolo incombe su qualcun altro e non su di noi”. Già da questa lucida, apparentemente fredda affermazione presente in “Necropoli” (1967) si comprende l‘immane sforzo di Boris Pahor, scomparso nella sua Trieste a 108 anni, di riuscire a comunicare l’incomunicabile. La violenza senza giustificazione razionale o semplicemente umana è stata più volte incrociata nella lunga vita di uno dei più importanti rappresentanti della cultura e della narrativa slovena del Novecento, soprattutto in quel romanzo che richiama fin dal titolo un’altra storia che parte proprio da una necropoli, in questo caso etrusca, memoria e profezia di quello che accadrà ad alcuni protagonisti: “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani. E incrocia quella di una Venezia Giulia che ha attraversato a sua volta la storia della nostra letteratura tra impero austro-ungarico, grande guerra, fascismo e comunismo di Tito e ci ha dato capolavori assoluti come “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz), per non dimenticare l’inquieta e fulminante “La persuasione e la retorica” di Carlo Michelstaedter e la memoria dolente ma stoicamente costruttiva de “Il mio Carso” di Scipio Slataper.
La storia, verrebbe la tentazione di dire le storie, di Pahor è infatti simile ad una fragile barca che attraversa due guerre mondiali, la convivenza tra popoli e religioni, e poi gli incendi dei fascisti contro l’etnia slovena narrati in “Il rogo del porto” o l’esperienza della guerra in Africa presente in un titolo che ricorda un’altra esperienza africana, quella di Lawrence d’Arabia: “Nomadi senza oasi”. Ma in “Necropoli” Pahor riesce nell’impossibile, nel riuscire a comunicare l’orrore del campo nazista di Natzweiler-Struthof, mettendo da parte i conati dell’io che recupera gli indicibili meandri del nulla fatto uomo, recuperando una freddezza espositiva nella ripresa del tempo della storia nel tempo della rivisitazione nell’oggi dello scrittore che rivisita quei luoghi.
Pahor ha conosciuto anche pesanti polemiche perché la sua storia narra in corpore vili la Storia umana che non mente, quella reale, fatta con il sangue di gente fatta fuori non solo dal nazismo, ma anche del comunismo di Tito, che pure si andava gradualmente distaccando da quello sovietico, illudendo molti sulla sua umanità. Lo scrittore-insegnante cattolico se ne è andato con la consapevolezza di aver testimoniato e lasciato a chi verrà il monito che anche l’impossibile, il raccapricciante impossibile, può accadere, e sta all’uomo, alla sua coscienza, di opporsi, pagando se necessario quell’opposizione in prima persona.