Alfie: la normalizzazione del male
"Sono di questi giorni le terribili notizie su Alfie Evans, piccolo bimbo inglese che essendosi affidato alle cure di un ospedale del suo paese oggi ne è prigioniero e non riesce in alcun modo a sottrarsi all’intenzione di sopprimerlo essendo ritenuta inutile la sua vita (gli stessi termini utilizzati dai nazisti per giustificare l’uccisione di esseri umani)"
Immediatamente dopo il nazismo ci si è resi conto del pericolo determinato dal male quando riesce a rendersi banale entrando nella normalità della vita di molti. Lo testimoniava con forza Hannah Arendt, filosofa tedesca che dopo aver assistito al processo del nazista Adolf Eichmann, scrisse in un libro le domande che nessuno sembrava volersi porre e le risposte che nella loro concreta verità erano scomode e inaccettabili per molti. Trattava del male nella peggior forma assunta nel secolo passato e della naturalezza con cui molte persone “normali” lo avevano compiuto. Ha scritto: “il fenomeno che ho chiamato LA BANALITA’ DEL MALE è un male che viene commesso da uomini e donne senza movente, senza alcuna crudeltà, senza menti diaboliche, perciò da esseri umani che si rifiutano principalmente di essere persone”.
Sono di questi giorni le terribili notizie su Alfie Evans, piccolo bimbo inglese che essendosi affidato alle cure di un ospedale del suo paese oggi ne è prigioniero e non riesce in alcun modo a sottrarsi all’intenzione di sopprimerlo essendo ritenuta inutile la sua vita (gli stessi termini utilizzati dai nazisti per giustificare l’uccisione di esseri umani). Due ospedali Italiani si sono dichiarati disponibili ad accoglierlo e accompagnarlo verso le migliori cure possibili senza preoccuparsi troppo della durata residua della sua vita. L’ospedale/prigione inglese dovrebbe quindi solo lasciarlo andare dove vuole e con lui i genitori, senza nemmeno riparargli le spese, ma non sopportano che siano lasciati liberi di decidere. La legge giudica i genitori troppo giovani ed emotivi, non in grado quindi di prendere le migliori decisioni per il loro bimbo, come se decidere di fermare l’apparecchio che lo aiuta a respirare fosse una normale decisione che un padre può prendere. Come se fermare la vita di un nostro figlio, dopo averla giudicata inutile, fosse normale. Come era normale eliminare la vita di un giudeo, giudicata inutile e dannosa.
Ho ascoltato da poco la trasmissione telefonica dell’incontro tra il neo senatore Pillon, in forza alla Lega ed espressione del movimento del Family Day, ed una ginecologa chiamata all’ultimo momento in sostituzione della deputata Cirinnà, famigerata sostenitrice della peggior neo-cultura, concausa certa del crollo di voti subito dal suo partito sia alle recenti elezioni che al meno recente referendum. Si parlava di aborto grazie al risveglio di interesse su questo tema provocato da una iniziativa lodevole di Provita, rilanciata e sostenuta da Pillon e da molte associazioni italiane sostenitrici della famiglia e della vita. Sono rimasto colpito dalle argomentazioni utilizzate dai difensori dell’aborto per molti versi equiparabili alle motivazioni utilizzate per impedire la continuazione delle cure e del sostegno ad Alfie, così come per tentare di introdurre l’eutanasia in tutte le legislazioni europee.
“Cosa fareste voi” (si intende voi cattolici in senso dispregiativo, naturalmente) “davanti ad una bambina di 9 anni che è rimasta incinta, gli impedireste di abortire? E pensate davvero che vietare l’aborto sia sufficiente ad impedirlo, visto che viene praticato fin dal tempo della civiltà egizia? Rimettereste le povere donne nelle mani delle matrone che praticano l’aborto illegale?”
Solo ad un certo punto si è sfiorato il cuore della questione, prontamente aggirato dai gestori dell’intervista che riportavano sempre tutto ai casi limite che colpiscono l’immaginario collettivo ma che invece non corrispondono per nulla alla realtà degli aborti praticati. Quando cioè hanno accusato “noi”, sempre nel senso dispregiativo, di credere che si tratti di un bambino, di una vita, mentre è con tutta evidenza soltanto un feto.
Ecco, appunto. Questo è il nocciolo del problema, la risposta per tutto. Così come per Alfie, per l’eutanasia e per tutto quello che riguarda il male che con determinazione e bravura (e quattrini) molte lobby stanno lavorando per rendere il più banale possibile. Per farcelo credere assolutamente normale.
Un feto è tale fino a 89 giorni, dal novantesimo è un bambino a tutti gli effetti. Se è un feto sano. Se invece è malformato il termine cambia e quindi possiamo abortirlo anche dopo poiché non è più un bambino, torna ad essere un feto. Tanto che in America si stanno adoperando per rendere possibile sopprimerlo anche fino alla nascita, si chiama aborto tardivo ed è legge in alcuni paesi. Quindi se il bambino presenta la sindrome per cui viene chiamato “down”, ad esempio, rimane un feto molto più a lungo e i medici, anche quelli obiettori, ne consigliano tranquillamente l’eliminazione. E’ la differenza fra l’aborto volontario e quello terapeutico (come se ci fosse qualcosa di curativo nel farlo…). Questa è la prassi, lo permette la legge e quindi è giusto, è normale.
Non credo nemmeno sia una questione economica, nel caso di Alfie ad esempio il costo dei processi finora sostenuti è di gran lunga superiore a quanto sarebbe costato curarlo o addirittura lasciarlo curare all’estero. Così come l’aborto ha un costo piuttosto elevato e offrendo più o meno quello stesso ammontare di denaro i centri di aiuto alla vita ottengono spesso un ripensamento da parte della mamma, segno che la necessità di un aiuto e di vicinanza umana è la reale esigenza di molte mamme lasciate sole. Sarebbe così facile scatenare tutti gli aiuti possibili e affiancarsi a tutte le donne che pensano ad abortire, a tutte le famiglie che vivono la malattia a volte senza speranze, a tutte le persone sole e disperate per sorreggerle e sostenerle concretamente e umanamente. Sarebbe uno tsunami di misericordia che cambierebbe il cuore di molti.
Non posso evitare di riportare ancora quanto detto 35 anni orsono dalla grande Santa Madre Teresa di Calcutta: “L’aborto è il più grande distruttore di pace oggi al mondo – il più grande distruttore d’amore. Il bambino non nato – il feto umano – è membro vivente della razza umana, creato ad immagine e somiglianza di Dio – per grandissime cose – amare ed essere amato. Perciò non c’è più da scegliere una volta che il bambino è stato concepito. Una seconda Vita – un altro essere umano è già nel grembo della madre. Distruggere questa Vita con l’aborto è omicidio, anzi peggio di ogni altro assassinio. Poiché chi non è ancora nato è il più debole, il più piccolo e il più misero della razza umana, e la sua Vita dipende dalla madre – dipende da me e da te – per una Vita autentica. Se il bambino non ancora nato dovesse morire per deliberata volontà della madre, che è colei che deve proteggere e nutrire quella Vita, chi altri c’è da proteggere?”.
Giudicare inutile, futile o dannosa una vita, o giudicarla “solo un feto”, sia essa di un piccolo bambino oppure di un anziano o di chiunque altro in qualunque condizione fisica è segno di inaridimento grave del cuore umano. Passerà, come sempre d’altronde, quest’onda. Ci vorrà ancora del tempo ma passerà poiché esiste anche il Bene. Nel frattempo noi dobbiamo testimoniare la sacralità, l’importanza, la bellezza e la provenienza di ogni vita con la nostra condotta di vita, con la nostra apertura alla vita, in ogni occasione educativa, donando ogni possibile supporto o aiuto a chi si trova in prima linea come oggi i genitori di Alfie.
Raccogliendo il messaggio profetico del grande Santo Giovanni Paolo II la civiltà Cristiana radice dell’Europa e del mondo occidentale si mostra sempre più ricoperta di ragnatele, relegata nelle nostre cantine più che in bella vista nelle nostre case. Noi dobbiamo reagire tornando a vivere pienamente la nostra Cristianità. Tornando a vivere pienamente la nostra Cristianità, vale la pena di ripeterlo.
Una preghiera e un abbraccio ad Alfie, per i suoi genitori, per chiunque altro soffra il male del mondo che arriva a giudicare normali perfino le guerre.