Perché permane l'incertezza?
I segnali di ripresa sono evidenti ed inducono ad un moderato ottimismo. Nessun botto, ma il sistema economico bresciano, fatto di imprese piccole e grandi, di lavoratori capaci, di servizi all’avanguardia
I segnali di ripresa sono evidenti ed inducono ad un moderato ottimismo. Nessun botto, ma il sistema economico bresciano, fatto di imprese piccole e grandi, di lavoratori capaci, di servizi all’avanguardia, ha scollinato. Lo hanno detto nel bilancio di fine anno Marco Bonometti, presidente dell’Aib, Douglas Sivieri, presidente di Apindustria, Eugenio Massetti, presidente di Confartigianato. Di “segnali incoraggianti” ha parlato Bonometti, di una ”Brescia che ha reagito meglio del resto dell’Italia” Sivieri, di un sistema artigianale “pronto alle nuove sfide” Massetti. In particolare Marco Bonometti ha ricordato che la produzione industriale nel 2016 è cresciuta del 3,2% e che l’occupazione è in ripresa, anche se il tasso dei senza lavoro è all’11%. I dati bresciani trovano conferma a livello nazionale. L’Istat ha certificato un Pil in aumento dell’0,8% e indicato quello atteso per il 2017 a quota 0,9%. Un aumento legato soprattutto alla crescita della domanda interna. Infine ha detto che l’occupazione chiuderà il 2016 con un +0,9%, l’incremento maggiore da inizio crisi.Ma se i dati sono questi, se Istat e leader delle associazioni bresciane dicono che il sistema dà segni di vitalità e di capacità di creare ricchezza, perché permane una sensazione diffusa di incertezza, di insicurezza, di sfiducia? Perché continuiamo a sentirci in crisi, a non capire qual è la direzione dell’economia e della società? Perché, come dice il Censis, siamo un Paese lacerato?
I fattori sono molti, ma si possono riassumere in tre grandi capitoli. Il primo è che dopo sette anni di gelo – le avvisaglie della crisi sono del 2009 – nonostante i segni positivi di recupero dei quali abbiamo detto, non c’è una direzione univoca di ripresa. Nel secolo scorso, dopo ogni crisi c’era un settore che più di altri incarnava anche nell’immaginario la ripresa. Oggi non è così e non sarà più così. Il recupero è figlio non di un settore, ma di una diversa attitudine a stare sui mercati: che significa visione, investimenti, prodotto, comunicazione. Mentre al contrario ci sono realtà che sollecitano percezioni negative. Un esempio? Il settore bancario. A tutto questo, e siamo al secondo capitolo, si aggiunge una mancanza di direzione sui grandi temi della convivenza. I profughi – anche chi ha diritto allo status – è visto come il nemico alle porte. L’Europa e la sua costruzione voluta da Spinelli e De Gasperi come garanzia di pace e di progresso dopo le devastazioni della guerra, è il nemico all’orizzonte. Non ci sono più alleati, non ci sono più compagni di strada. E nessuno è capace di indicare un orizzonte politico in grado di rimettere parole e aggettivi nella giusta prospettiva. Ad eccezione di Papa Francesco che ci ricorda senza stancarsi mai la necessità di “restare umani”.
Il terzo capitolo riguarda il “noi”. Quanto abbiamo detto finisce per alimentare una narrazione nella quale l’individualismo la fa da padrone. Il massimo della possibilità di comunicare – questo è l’era digitale − finisce per ribaltarsi nel minimo storico delle relazioni. Quelle vere, della mano che ne stringe un’altra, di un abbraccio che consola, di un pianto e di una gioia da condividere. Siamo soli. Soli abbiamo affrontato il tracollo – economico e culturale – soli ci viviamo davanti ad una ripresa della quale non ci fidiamo e che dobbiamo riempire di contenuti veri. Il gelo che ci è penetrato nelle ossa se ne andrà, forse, non solo con una ripresa economica solida, ma con la ripresa di quel reticolo di rapporti che fanno comunità e riempiono di senso parole come fiducia e speranza.