Suicidio assistito: nessuno si senta solo
È necessario chiarire che “inguaribile” non è sinonimo di “incurabile”: anche qualora una persona viva una condizione di malattia inguaribile è sempre possibile continuare a prendersi cura di lei, fino alla fine. La riflessione di mons. Sandro Salvucci, arcivescovo metropolita di Pesaro
Quando una persona arriva a scegliere di mettere fine alla propria vita si impongono atteggiamenti di profondo rispetto per chi vive una sofferenza tale da fargli dire: “Che senso ha una vita così?”. In questi momenti occorre vicinanza fraterna. Con profondo rispetto vorrei quindi prima di tutto esprimere la vicinanza mia e di tutta la comunità cristiana a Fabio, alla sua famiglia, e a tutte le persone che vivono gravi situazioni di sofferenza, di solitudine, di sconforto: siete nel mio cuore e nelle mie preghiere.
La richiesta di “suicidio assistito” da parte di Fabio (Ridolfi, ndr) fa comprendere l’urgenza che le comunità cristiana e civile si adoperino sempre più nel recare consolazione, cura, prossimità, speranza, affinché nessuno si senta solo, in ogni momento della propria vita, soprattutto nei momenti più difficili.
La vita umana, ogni vita umana, è un dono ricevuto, che va tutelato e difeso in ogni condizione. Di fronte a queste situazioni così intime e personali dovremmo, anzitutto, evitare che diventino lo spazio di “battaglie” pubbliche, etico-politiche, tra credenti e non credenti, tra “conservatori” e “progressisti”. Tutto ciò va contro il bene comune, e contro il bene del malato stesso. È necessario invece incrementare spazi di dialogo, di cura, di prossimità, tra famiglie e società, tra cittadini e istituzioni, tra malati e curanti. Tutto lo si deve fare, come ci insegna Papa Francesco, nell’ottica del bene comune e dell’accoglienza, rispettando la libertà di ognuno e ricercando, allo stesso tempo, qualità nei rapporti umani. Solo in questo modo potremo avere una comunità capace di rendersi anche responsabile della vita di tutti i suoi membri, favorendo così la percezione in ciascuno che la propria vita è significativa e ha un valore anche per gli altri.
Perché dietro ad ogni richiesta di suicidio o di eutanasia, non vi è la conquista di diritti civili, ma la sconfitta di una società che non riesce più cercare quel “bene che ci accomuna”, divenendo così sempre più incapace a star vicino alle persone e a trasmettere un senso anche in una situazione di difficoltà come quella di un malato che non può muoversi.
Ogni vita umana ha un senso. Tuttavia, se manca questo rapporto intimo, di compassione, di amicizia inevitabilmente la vita è difficile da comprendere e le persone possono arrivare a voler morire. Per questo motivo, proprio in virtù del bene comune, non è condivisibile ogni azione che vada contro la vita stessa, anche se liberamente scelta. La strada più convincente è allora quella di un accompagnamento che assuma l’insieme delle molteplici esigenze personali (bio-psico-sociali-spirituali) in queste circostanze così difficili. È necessario chiarire che “inguaribile” non è sinonimo di “incurabile”: anche qualora una persona viva una condizione di malattia inguaribile è sempre possibile continuare a prendersi cura di lei, fino alla fine. È la logica delle cosiddette “cure palliative” che non rappresentano una resa davanti all’ineluttabilità di una malattia irreversibile, bensì un accompagnamento costante della persona malata per arrecare sollievo alle sue sofferenze. Si tratta di continuare a sussurrare al suo cuore: “Tu sei per me importante: la tua vita vale!”.