Pellai: gli adolescenti e gli abissi interiori
Dottor Pellai, che cosa può essere scattato nella mente di Riccardo?
Non possiamo saperlo; quello che certamente avvertiamo in questa narrazione sono sintomi di de-personalizzazione e de-realizzazione che spesso conducono ad una sorta di stato dissociativo,
uno stare dentro la vita facendo tutto con modalità automatiche, sentendosi incapaci di gestirla e di controllarla.
Questa è la motivazione per cui ci troviamo a compiere gesti che non erano intenzionali, ma che vengono comunque agiti. Credo però vi sia anche un altro aspetto: nel corso dell’adolescenza capita a tutti di avere vissuti faticosi, di sperimentare disagio: una caratteristica fisiologica che obbliga però il ragazzo e la ragazza a rimanere in contatto in modo funzionale con il proprio mondo interiore, a saper riconoscere e validare i propri stati emotivi, a saper eventualmente chiedere aiuto. Quello che oggi accade a moltissimi adolescenti – più ai maschi che alle ragazze – è di avere dentro di sé
un vuoto angoscioso, un abisso interiore che dà segnali che non vengono riconosciuti, che non sanno come attraversare e gestire.
Si tratta spesso di ragazzi che hanno goduto di grande benessere, ma hanno poco – o nessuno – allenamento ad affrontare le sfide del disagio e della fatica, per cui non sono dotati di quelle competenze emotive e cognitive che di fronte alle difficoltà ciascuno di noi è chiamato a mettere in campo.
Perché più i maschi? Sono più fragili delle ragazze?
C’è una profonda differenza: quando soffrono, i ragazzi fanno molta fatica a chiedere aiuto. La richiesta di aiuto da parte del maschio lo fa sentire fragile e inadeguato; è davvero difficile che un ragazzo chieda di andare dallo psicologo, mentre le ragazze hanno molta più capacità di introspezione. Inoltre, è più facile per una madre dire ad una figlia che sta soffrendo: “La tua sofferenza ha un senso, vai nel luogo in cui deve essere accolta”; i padri invece dicono spesso:
“Ma che uomo sei? Dai che ce la fai”, come se quella fragilità non fosse roba da uomini.
Penso a tanti ragazzi – molto più delle femmine – in ritiro sociale: pur essendo in uno stato di grande sofferenza non sono disponibili a cercare aiuto. Spesso il modello terapeutico prevede che qualcuno li raggiunga a casa.
Siamo ancora legati, quindi, ad un archetipo culturale di maschio obbligatoriamente “forte”?
Sì, il ruolo di genere non aiuta, ma neppure la nostra società della performance. Fin da quando i nostri figli sono piccoli li guardiamo restituendo loro l’idea che devono essere persone straordinarie, che diano il massimo, che siano numeri uno. A quel punto è faticoso confidare ad una famiglia che ti ha fatto credere onnipotente: io mi sento fragile e rischio di spezzarmi. È come far crollare il palco che ci siamo costruiti per stare sulla scena della vita.
Ma è possibile che questo profondo malessere non sia stato intercettato da chi stava intorno a Riccardo?
Di solito gli indicatori ci sono, i genitori si accorgono se qualcosa non funziona. In questa vicenda, leggendo quanto riportato dai media, abbiamo invece un ragazzo solare, sportivo, pieno di amici. È vero che spesso fenomeni esplosivi di eterolesionismo o di autolesionismo – quando un ragazzo si toglie la vita – avvengono per noi del tutto inaspettati.
Questi ragazzi hanno dentro di sé mondi enormi e oscuri, di cui solo loro conoscono l’abisso.
Sembra che Riccardo inizi a prendere coscienza della gravità del suo gesto. Quando questo processo di consapevolezza sarà completo, che tipo di reazione potrebbe avere e di quale aiuto potrebbe avere bisogno?
Il dolore sarà enorme, devastante, ma questa crisi costituirà in qualche modo la sua salvezza.
Da quanto apprendiamo dai media, in questa vicenda emerge un enorme scollamento dal principio di realtà, l’idea che siccome avverto un disagio e mi sembra derivi dalla pressione che subisco in famiglia, mi convinco che eliminando la famiglia potrò sentirmi bene. Questo è uno stare dentro ad uno schema stimolo-reazione senza nessuna elaborazione o significazione del proprio gesto, che viene semplicemente agito. Solo dopo avere portato a termine la strage Riccardo si accorge di non avere risolto nulla. Ognuno di noi ha dentro di sé pensieri oscuri e distruttivi, ma se anche ci balenasse per un attimo l’idea di fare fuori qualcuno, non passeremmo all’azione grazie ai nostri freni inibitori e a criteri etici morali che ci farebbero comprendere il male assoluto di un gesto del genere. Qui la dinamica è invece: premo un pulsante e vedo cosa accade. Solo dopo mi accorgo che era meglio non accadesse…
Nel 2001, poco dopo il delitto di Novi ligure nel quale Erika, 16 anni, insieme al fidanzato Omar uccise la mamma e il fratellino, don Domenico Ricca, allora cappellano del Ferrante Aporti, carcere minorile nel quale si trovavano entrambi in stato di fermo, mi disse che nessuna famiglia può dire con certezza: “Questo a noi non capiterà mai”.
È così. In questi giorni sto ricevendo molti messaggi di genitori sgomenti e disorientati che vorrebbero avere questa certezza. Ma come faccio a rassicurarli? Nessuno di noi è nella mente dei nostri figli che quanto più diventano adulti tanto più diventano autonomi e responsabili della loro vita e delle loro azioni. Detto questo, quando guardo i miei quattro figli – due maschi e due femmine tra i 15 e i 24 anni, ndr – non tento di scrutare se dentro di loro c’è un mostro. Il mio ruolo di genitore è nutrire il più possibile la loro competenza, curiosità sul mondo e ricerca di bellezza, non guardarli spaventato. Vorrei dire ai genitori che i nostri figli non vanno guardati con paura ma, a maggior ragione in questo tempo, con fermezza e autorevolezza, assicurando loro:
“Sì, siamo qui. Qualsiasi cosa ci accada la affronteremo insieme, ma quando ti guardo io vedo in te un germoglio che fiorirà”.
Ora i compagni del giovanissimo omicida torneranno in classe. Di quale sostegno avranno bisogno per superare il trauma?
Dal punto di vista tecnico, in questi casi si utilizza un protocollo di desensibilizzazione collettiva dal trauma di gruppo attraverso la metodica Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, ndr). Uno strumento terapeutico tramite il quale si accompagnano ragazzi e ragazze a tenere dentro di sé la consapevolezza, la memoria di un fatto così agghiacciante, senza però rimanerne emotivamente intrappolati o bloccati. Il secondo intervento consiste nel farli parlare molto, capire quali significati danno a quanto accaduto, aiutarli a riconoscere le proprie fragilità, insomma si lavora sulle competenze e sulla consapevolezza emotiva, sul potenziamento di quella che chiamiamo mente intrapersonale, ossia la capacità di guardarsi dentro che probabilmente un tempo era molto più allenata nell’età evolutiva perché nella vita dei ragazzi c’erano più lentezza e autoriflessività, più nutrimento filosofico e spirituale. È un bel percorso da fare, muovendosi in modo formativo all’interno di un evento che altrimenti lascerebbe dietro solo un potenziale distruttivo.
Oggi 5 settembre, su sua richiesta, Riccardo incontrerà i nonni che fin dal primo giorno hanno assicurato che gli staranno vicino. Quale potrà essere il loro ruolo?
Per questo ragazzo il grande tema sarà capire se ha commesso un gigantesco errore oppure se è una persona sbagliata. Tutto il lavoro riparativo riabilitativo di Riccardo servirà a prendere consapevolezza del suo gravissimo errore e a costruire una sua identità adulta dove percepirsi non come un uomo sbagliato, ma come un uomo che ha fatto un enorme sbaglio. In questo percorso l’affetto dei nonni costituirà una base sicura, un porto;
sarà lo sguardo con cui vieni guardato da qualcuno che ti ama nonostante il male compiuto.
Secondo il modello del figliol prodigo: se hai consapevolezza di quanto hai fatto, torna a casa, noi siamo qui per accoglierti.
@Foto Ansa/Sir