Orfani di femminicidio senza voce e senza diritti
Dal 2000 ad oggi nel nostro Paese sono oltre 1.600 gli orfani di femminicidio, non effetti collaterali ma vittime due volte, senza diritti e senza voce.
È un
sarcofago di ghiaccio che stringe in una morsa d’acciaio e toglie il respiro,
il peso che gli orfani di femminicidio devono sopportare talvolta fino a
esserne schiacciati. Testimoni del male assoluto e due volte orfani: figli ai
quali la mano violenta del padre ha strappato la mamma, oltre
1.600 dal 2000 ad oggi. Doppiamente
orfani perché il padre sta scontando la pena in carcere oppure, come spesso
accade, dopo l’omicidio si è tolto la vita. Non effetti collaterali o vittime
secondarie, ma giovani vite segnate per sempre. Bambini o ragazzi scampati alla
furia di chi avrebbe dovuto proteggerli insieme alla loro mamma solo perché non
presenti all’omicidio, mentre è di qualche giorno fa la
notizia della dodicenne di Pavia, ferita di striscio dal compagno e assassino
della madre, costretta a fingersi morta per salvarsi.
Ed è un calvario quello che
devono affrontare: la lacerazione della perdita; il
processo del padre in un’ambivalenza di sentimenti da destabilizzare chiunque;
se minorenni l’affidamento ai nonni o ad altri familiari – diventando magari
oggetto di contesa – o la collocazione in case famiglia. Frequenti le
difficoltà economiche causate dalla perdita di entrambi i genitori.
Quale tsunami si scatena
nella loro mente e nel loro cuore? Chi se ne occupa? Che fine fanno
quando i riflettori della cronaca si spengono? Abbiamo girato queste domande ad
Anna
Costanza Baldry, criminologa e docente di psicologia sociale
alla Seconda Università degli studi di Napoli, ideatrice e coordinatrice del
progetto https://it-it.facebook.com/switchoffeu/(Supporting
Witness Children Orphans From Feminicide in Europe ma anche acronimo di
“spento”) i cui risultati verranno presentati a settembre in un incontro alla
Camera dei deputati, insieme a un documento di Linee guida.
Il progetto – all’interno del quale www oltre
al tradizionale significato di world wide web riassume le tre domande: who,
where, what? – “è nato nel 2011 pensando ai ragazzi che dieci
anni prima avevano perduto i genitori nell’attentato alle Torri gemelle”, ci
spiega Baldry, ed è partito l’anno successivo, finanziato dall’Unione europea e
coordinato dal dipartimento di Psicologia dell’Università partenopea, con la
collaborazione della rete nazionale dei centri antiviolenza ‘DiRe’ (Donne in rete), dell’Università
Mikolas Romeris della Lituania e dell’Università di Cipro. Degli
oltre 1.600 orfani individuati, 143 hanno accettato di essere incontrati e
intervistati: “i maggiorenni hanno raccontato personalmente la
loro storia. In caso di minori il colloquio è avvenuto con gli adulti
affidatari”. Poche le patologie importanti riscontrate ma, precisa la
ricercatrice, “non si tratta di un campione rappresentativo: solo una piccola
parte si è sentita di rispondere. Dalle situazioni più ai margini non abbiamo
avuto alcun feed-back”.
Vicende
diverse ma con un comune denominatore: il senso di solitudine dei protagonisti
e l’inadeguatezza delle risorse messe in campo per aiutarli.
Fondamentale il sostegno psicologico,
per loro e per i familiari che se ne prendono cura, colpiti anch’essi dal
lutto; eppure lo ha ricevuto soltanto il 15%, mentre solo nella metà dei casi
l’intervento dei servizi sociali è proseguito oltre l’affidamento.
“Proprio dalla loro voce e dal loro vissuto provengono in buona parte gli spunti per le linee guida che saranno a disposizione di servizi sociali, magistratura, forze dell’ordine, ma offriranno indicazioni concrete anche a familiari, insegnanti, genitori di compagni di scuola e di amici. Si tratta di situazioni devastanti alle quali non si è preparati”, prosegue la responsabile del progetto. Il primo passo è il funerale. “Che cosa vorreste dire ad altri orfani come voi e alle loro famiglie?”. Di fronte a questa domanda esplode il dolore per non essere stati portati al funerale della mamma: “Ci sarei voluto essere perché l’avrei potuta vedere almeno nella bara”.
Ed anche la
sofferenza per i silenzi degli adulti, le risposte vaghe alla loro
ansia di verità: “Mia madre non si poteva nemmeno nominare”. Pensiamo così di proteggere i nostri
bambini, ma è un errore. “Per l’elaborazione del lutto – spiega l’esperta – il
primo passo è prendere consapevolezza di quanto accaduto, dare un nome alla
realtà. La reticenza degli adulti finisce invece per alimentare fantasie
angosciose e profonda vergogna”. In alcuni casi ulteriormente aggravati da “uno
stigma sociale che fa credere che, in fondo, la vera colpevole sia la madre
uccisa”, o dal senso di colpa per non essere riusciti a salvarla.
Di che cosa hanno bisogno? “Occorre abbattere con azioni e interventi adeguati il muro di silenzio e di non riconoscimento che li avvolge ; servono formazione specifica e linee guida, un protocollo d’azione omogeneo perché, anche se non esiste un modello standard, chi si occupa di loro sappia che cosa fare e che cosa non fare”. Nei mesi scorsi è stato presentato alla Camera dei deputati un progetto di legge che prevede il loro gratuito patrocinio, la provvisionale e il sequestro conservativo dei beni dell’omicida e la sua esclusione dall’eredità della compagna uccisa. Per Baldry è però necessaria una legge di tutela a 360° che istituisca anche un fondo analogo a quello previsto per le vittime di terrorismo e mafia.
Solo così sarà possibile sostenere e
accompagnare psicologicamente e materialmente in un percorso di rinascita le
vittime incolpevoli di questa insensata violenza.