Non parliamo di raptus
Meglio non parlare di raptus quando un gesto così efferato è il risultato di tanti fattori scatenanti. Un ragazzo di 17 anni ha ucciso con trenta coltellate la madre ieri a Napoli. Dalle prime ricostruzioni, pare che il giovane si sia avventato sulla donna, contraria al suo ultimo acquisto di una ricarica da 100 euro per giocare alla Playstation. Per alcuni si è trattato di un raptus ma per Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma, sarebbe opportuno indagare su altre spinte che riguardano la cultura e la società, come il nuovo rapporto fra genitore e figlio e il rifiuto della colpa.
Professore, è corretto dire che il ragazzo sia stato vittima di un raptus?
Meglio non parlare di raptus. C’è il rischio di oscurare i fattori che hanno condotto il ragazzo a compiere il gesto. Il raptus è la via breve, la soluzione che nega che l’essere umano sia capace di commettere il male. Il filosofo Martin Buber, proprio sul tema del male, scrive che “la malvagità dell’azione deriva dalla malvagità del pensiero” e mentre Dio trascende la conoscenza del bene e del male, l’uomo non può superarla.
Se non realizza la volontà di Dio, l’uomo si allontana e dà luogo alla violenza.
Dalle prime ricostruzioni pare che il ragazzo fosse dipendente da giochi on line e per un rimprovero potrebbe aver ucciso la madre.
È vero, le dipendenze fanno sì che l’unica cosa che conta nella vita sia l’oggetto della dipendenza. La dipendenza porta a subordinare tutto, anche le relazioni, all’oggetto della dipendenza. Ma mi sembra troppo meccanica come spiegazione. Altro fattore che intravedo è il rapporto con la virtualità. Quando trasferiamo il rapporto con le immagini che abbiamo nei mondi virtuali nella realtà le persone che incontriamo diventano solo immagini, simulacri privi di corpo.
Al simulacro posso far cose che non hanno conseguenze. Nel gioco on line non ho l’impressione di far del male perché l’immagine è senza vita. C’è la perdita di capacità di vivere gli altri come persone, le si vive solo come immagini.
Secondo una delle ricostruzioni, sembra che il ragazzo sia uscito sul balcone per dire ai passanti che era stata lei a pugnalarlo per prima o che fosse stato un suicidio.
Tipica della nostra cultura è l’incapacità di affrontare la propria colpa. Vi è un rifiuto. La prima cosa che si fa è cercare di giustificarsi. Si innesca un meccanismo per cui la persona elabora una serie di attenuanti con cui crede di non essere realmente colpevole perché è vittima di circostanze. Nella nostra cultura è molto diffuso.
Le prime parole agli investigatori sembra siano state “le volevo bene, non avevo intenzione di ucciderla”.
Si tende a giustificare l’azione malvagia a livello psichico. Anche sul caso della madre che ha ucciso la figlia nel catanese circola la spiegazione che fosse in quel momento fuori di sé. È un tentativo di patologizzare una condotta per non affrontare la colpa. Nella nostra cultura è saltata la differenza fra genitore e figlio, fra educatore ed educando. Non c’è più una asimmetria, caratteristica di ogni relazione educativa. Anche i comandamenti dicono “Onora il padre e la madre”. Questo però ormai è spazzato via dalla cultura. Non c’è la riconoscenza di un debito per aver ricevuto la vita da un’altra persona. In questo specifico caso, il ragazzo era stato adottato ma aveva comunque il debito della vita affettiva ricevuta dai genitori.
@Foto Ansa/Sir