Lavoro minorile: piaga anche italiana
Ricorre oggi la Giornata mondiale contro il lavoro minorile. Per l'occasione Save the Children presenta i dati di un'inchiesta che mette in risalto i numeri del fenomeno in Italia
Secondo le ultime stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), sono 160 milioni i bambini coinvolti nel lavoro minorile, circa uno su dieci in tutto il mondo. La Giornata mondiale contro il lavoro minorile, che ricorre oggi è occasione per riflettere sul fenomeno, una piaga che comprende varie forme di sfruttamento e abuso, spesso causate da condizioni di estrema povertà, dalla mancata possibilità di istruzione, da situazioni economiche e politiche in cui i diritti dei minorenni non vengono rispettati. Tema dell’edizione 2024 della ricorrenza, lanciata per la prima volta nel 2002 dall’Oil, “Rispettiamo i nostri impegni: poniamo fine al lavoro minorile”!
Secondo un’indagine sul lavoro minorile in Italia "Non è un gioco" realizzata da Save the Children in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio, emerge che in Italia 336 mila minorenni di età compresa tra 7 e 15 anni abbiano avuto esperienze di lavoro, praticamente il 6,8% della popolazione di quell’età, mentre è del 20% la percentuale dei 14-15enni che hanno lavorato prima dell’età legale consentita: 1 minore su 5.
Molte di queste esperienze lavorative raccolte da Save the Childern sono state svolte nell’ambito della ristorazione (25,9%) e nelle attività di vendita nei negozi e attività commerciali (16,2%), ma compaiono anche di nuove forme di lavoro, come quello online (ad esempio pubblicità, video, contenuti sui social a pagamento, compravendita online) che riguardano il 5,7% degli intervistati che hanno dichiarato di aver lavorato nell’ultimo anno.
Quasi la metà dei minori che hanno preso parte all’indagine ha dichiarato di aver trovato lavoro tramite i propri genitori, questo sottolinea come una parte importante del fenomeno del lavoro minorile sia in qualche modo ascrivibile all’ambito familiare.
Già nel 2021, una ricerca della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, stimava che ben 2,4 milioni di occupati in età 16-64 anni hanno iniziato a lavorare prima dei 16 anni, ovvero complessivamente il 10,7% degli occupati nel 2020. Un fenomeno leggermente più diffuso nelle regioni del Nord Italia e con più di 230mila occupati con meno di 35 anni che dichiarano di aver svolto una qualsiasi forma di lavoro retribuita già prima dei 16 anni. Questi dati ribadiscono l’importanza di una maggiore sensibilizzazione riguardo ai rischi legati al lavoro minorile e alle conseguenze che può avere sui più giovani in termini di apprendimento e benessere.
Il lavoro minorile è spesso causa o effetto del fenomeno della dispersione scolastica, un nodo critico del Paese. Secondo l’Istat, la quota dei giovani 18-24enni ‘dispersi’, ovvero che escono dal sistema di istruzione e formazione senza aver conseguito un diploma o una qualifica, nel 2021 era pari al 12,7% del totale, contro una media europea del 9,7%.
I minori che lavorano prima del compimento dei 16 anni, infatti, svolgono spesso attività giornaliere, in orari che coincidono con la frequenza scolastica, provocando quindi assenze ripetute e limitando il tempo dedicato allo studio. Il tempo dedicato al lavoro e sottratto allo studio e alle attività formative/educative porta arisultati scolastici scadenti e, in molti casi, all’abbandono della scuola, a favore anche di una condizione diffusa di inattività.
Il lavoro minorile può anche influenzare la condizione futura di giovani ‘Neet- Not in Education, Employment, or Training, alimentando la trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione sociale. I ragazzi e le ragazze di età compresa tra 15 e 29 anni in questa situazione in Italia sono più di 1 milione e 500mila nel 2022, il 19 % della popolazione di riferimento, con un valore in Europa secondo solo a quello osservato in Romania.
L’abbandono scolastico, la mancata partecipazione o un basso coinvolgimento in percorsi sia di formazione che di lavoro, sembra caratterizzare le storie di chi ha visto consumarsi il proprio rapporto con la scuola, spesso considerata come una gabbia da cui fuggire.