L'Italia non è un Paese per madri
I dati Istat, insieme a quelli sulle dimissioni volontarie delle neomamme, confermano le difficoltà italiane nel pensare serie politiche per la maternità
I recenti dati Istat relativi alla natalità in Italia (mai così bassa) e quelli riguardanti le dimissioni volontarie delle neomamme contribuiscono ad amplificare un allarme che era già acceso da anni. Questi dati dicono che una delle cause della denatalità nel nostro paese è un mondo del lavoro non mum-friendly.
Come rappresentante delle Acli non abbiamo potuto restare indifferenti a questa ennesima sirena. Giuseppe Foresti, presidente del Patronato provinciale, ha messo nero su bianco sia le problematiche che alcune proposte per risollevare una situazione grave, sia per la demografia che per l’economia italiana (sappiamo quanto è il mancato Pil a causa del basso impiego di manodopera femminile?).
La neo-mamma che nell’arco del primo anno del bambino opta per le dimissioni volontarie ha diritto, in presenza di almeno 4 anni di anzianità lavorativa, di due anni di disoccupazione a importi non troppo penalizzanti. Una misura-trappola che sembra quasi incentivare – o non disincentivare – una pratica che non valorizza l’apporto della donna nel mondo del lavoro. Spostare quel denaro su politiche che invece mirino alla conservazione del posto di lavoro con orari ridotti o più flessibili (qualora richiesto dalla donna), sarebbe certamente più efficace.
A questo però vanno aggiunte politiche di welfare che aiutino le famiglie a sostenere le spese di asili e/o baby sitting oltre che assegni familiari che non rendano la scelta di avere un figlio un’opzione “per ricchi”. Oggi sono proprio le famiglie economicamente più fragili quelle in cui, all’arrivo di un figlio, l’incidenza dell’abbandono del lavoro da parte della madre è più significativo. Un aiuto – economico e di conciliazione – sarebbe di sostegno alla società intera, per il suo potere di contribuire alla prevenzione di povertà materiale ed educativa. Faccio un passo indietro (sperando di farne uno avanti). Torno all’invio del curriculum vitae per la ricerca di un (nuovo) impiego. Quello di una donna in età fertile verrà sempre guardato con più diffidenza, anche dai datori di lavoro più “aperti”. La scelta più egualitaria e anche più culturalmente avanzata, sarebbe estendere obbligatoriamente il congedo parentale paterno a una durata almeno simile a quello della madre, da consumarsi contemporaneamente o in alternanza a quello materno. Così una lavoratrice sarà davvero uguale a un lavoratore e un uomo avrà il diritto/dovere di prendersi un tempo congruo per diventare padre.