L’epidemia non più invisibile
L’epidemia non più invisibile
Negli ultimi quattro anni i disturbi alimentari hanno subito una forte impennata, specialmente tra giovani e giovanissimi. La Survey nazionale del ministero della Salute riferisce che si è passati da 680.569 casi (censiti nel 2019) a 1.450.567 (2022). Nel complesso le persone trattate oggi per queste patologie sono oltre 3 milioni. Ne parliamo con la dottoressa Valeria Zanna, responsabile del Centro per l’anoressia e i disturbi alimentari dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Dottoressa Zanna, i disturbi dell’alimentazione sono in forte diffusione tra i teenager. Si può parlare di una “epidemia invisibile”? Sì, stiamo osservando una continua espansione dei disturbi alimentari e in maniera particolare una forte precocità dell’esordio di questa patologia. La situazione è critica nella fascia di età compresa tra i 12 e i 18 anni e prevalente nei soggetti di sesso femminile. La tendenza è esplosa durante la pandemia, con un incremento del 30% dei casi. I ricoveri dei più piccoli sono aumentati. In realtà ci troviamo di fronte a un fenomeno “visibilissimo”, non più invisibile.
Quali sono le cause alla radice di disturbi come l’anoressia e la bulimia?
Come tutte le malattie psichiatriche, l’eziologia è multifattoriale. Vale la cosiddetta “regola delle tre P”, ovvero i fattori che determinano l’insorgere dei disturbi alimentari possono essere definiti “predisponenti, precipitanti e perserveranti”. Nelle persone colpite i “fattori predisponenti” sono, in genere, una mentalità piuttosto rigida e a tratti ossessiva, marcata da un perfezionismo estremo e ansioso, in alcuni casi caratterizzata da tratti di fobia sociale. Spesso si tratta di studenti modello, o atleti straordinari. Tra i “fattori precipitanti”: troviamo l’esposizione a forti stress, come la separazione dei genitori, un lutto, la perdita di un’amicizia importante. In alcuni soggetti una condizione di sovrappeso fa intraprendere una dieta troppo rigida, che sfugge poi di mano. Poi ci sono i “fattori perseveranti”, quelli legati al “vantaggio” che si acquista all’interno del nucleo familiare quando si manifesta il disturbo: cioè una maggiore visibilità. Da non sottovalutare anche l’aspetto del “controllo”: attraverso la gestione estrema del cibo si può controllare il corpo e anche le proprie emozioni. La carenza di cibo sembra, infatti, anestetizzare la mente.
I socialmedia che ruolo hanno nella diffusione di questi disturbi?
L’anoressia nervosa esiste da sempre. Attualmente i social offrono modelli di perfezione virtuale non autentici, ma estremamente ricorrenti e quindi pressanti all’interno della nostra quotidianità. Su adolescenti che già si sentono insicuri rispetto al proprio corpo, essi agiscono da rinforzo e da amplificatori del disagio. Questo aspetto, però, non interessa soltanto i giovani e i giovanissimi. Al giorno d’oggi tutti siamo giudicati e discriminati in base alla nostra fisicità, in maniera particolare le femmine. A pensarci bene le difficoltà delle ragazzine riflettono in maniera più evidente e drammatica, il disagio delle proprie madri e delle donne in generale, assillate dall’ansia di contrastare le trasformazioni del proprio corpo.
Come funzionano cura e prevenzione?
Ci si affida a équipe multidisciplinari. Si lavora con i soggetti interessati, ma non solo: in età evolutiva, infatti, l’intera famiglia deve essere presa in carico. La relazione tra genitori e figli è il nodo da sciogliere. Spesso in casa ci si concentra troppo sulle performance dei ragazzi, come se il successo scolastico o sportivo fosse la misura del loro benessere interiore. Occorre porre, invece, grande attenzione alle relazioni che i giovani sviluppano nell’ambito familiare, a scuola e con i pari. Ci sono segnali spesso trascurati e indicativi di un malessere latente e consumato in solitudine.
La scuola che cosa può fare?
La scuola, forse più di tutti, può insegnare ai ragazzi a trovare un modo per uscire “fuori dai numeri”. Gli insegnanti dovrebbero puntare maggiormente sulla qualità della relazione educativa e rinunciare a una didattica troppo valutativa. La scuola dovrebbe porre le basi per una vera e propria rivoluzione identitaria, imperniata sull’essere più che sull’apparire. Le crisi dei nostri giovani non sono che il riflesso dello spaesamento degli adulti di oggi e della mancanza di coerenza di una società che spesso appare in balia di sé stessa.