Aperture domenicali? La storia è chiara
Nel maggio del 1929 in Unione Sovietica venne abolita la domenica destinata al riposo. Il sistema dei turni avrebbe dovuto garantire una operatività continua ogni giorno, per ventiquattro ore, non solo per le fabbriche ma anche per i negozi e per il pubblico impiego. La riforma, apparentemente facile da applicare, si rivelò in realtà disastrosa per le relazioni sociali
Sotto Natale e Capodanno è tornata la polemica sull’apertura dei negozi nei giorni di festa. I favorevoli affermano che non ha senso chiudere i centri commerciali perché le aperture “7 giorni su 7” aiutano i consumi. I contrari ritengono che i lavoratori debbano avere un giorno di riposo da dedicare a se stessi, alla famiglia e, per chi ha fede, alla Messa. Ma chi ha le ragioni migliori? Il lavoro è sacrosanto, ma è anche vero che c’è il rischio di diventarne schiavi. La discussione potrebbe continuare all’infinito; ma è la storia del ‘900, spogliata delle contingenze, a offrire lezioni interessanti. Nel maggio 1929, per esempio, l’Unione Sovietica attuò una grande riforma del calendario (simile a quella della Francia rivoluzionaria) ufficialmente mirata ad aumentare la produzione, ma in realtà con l’intento di “combattere lo spirito religioso”. Le nuove settimane erano lunghe cinque giorni, e ogni giorno era marcato da un numero romano o da un colore che contrassegnava un distinto gruppo di lavoratori che lavorava a rotazione. Abolita la domenica destinata al riposo, il sistema dei turni avrebbe dovuto garantire una operatività continua ogni giorno, per ventiquattro ore, non solo per le fabbriche ma anche per i negozi e per il pubblico impiego. La riforma, apparentemente facile da applicare, si rivelò in realtà disastrosa per le relazioni sociali. Se ad esempio il marito riposava nel giorno “rosso”, la moglie nel giorno “azzurro” e i figli nel giorno “giallo”, questo significava avere pochissime occasioni di stare insieme persino nella stessa famiglia, se non dopo una lunga giornata di lavoro. In pratica le persone venivano isolate dai propri amici, familiari e correligionari (cristiani, ebrei e musulmani) e “rimescolate” in cinque gruppi sociali distinti che conducevano vite parallele senza mai incontrarsi.
L’esperimento ha portato alla distruzione dell’istituto familiare, vista la evidente difficoltà di tenere insieme persone che avevano differenti orari di lavoro e di riposo. Fin da subito vi furono numerose lamentele proprio per via della frammentazione sociale indotta dalla riforma, ma ci vollero ben undici anni prima che il governo sovietico accantonasse definitivamente il “calendario rivoluzionario”. Fra i motivi dell’abbandono, oltre a quelli già citati, vi fu un curioso effetto “boomerang” sulla produzione industriale, che diminuì in quanto i macchinari tendevano a rompersi più spesso per via del funzionamento continuo che non lasciava tempo per il fermo e la manutenzione; e inoltre il lavoro su turni portò a una mancanza di continuità che deresponsabilizzava i lavoratori e causava un ulteriore calo di rendimento. L’esperimento fatto in Unione Sovietica insegna che lo sbiadimento, quando non l’abolizione pratica della domenica è inutile e dannosa non solo per le persone, ma addirittura anche per l’economia e la società: questo perché “il settimo giorno” è necessario al riposo e soprattutto al mantenimento di relazioni sociali stabili.