Una preghiera che nasce dalla fragilità
Preghiera deriva dal latino precarius, che vuol dire “concesso per favore”, ma anche “precario, incerto” e direi fragile. Dico questo perché la mia esperienza di preghiera durante la vita quotidiana non è solo liturgica (come le lodi, per esempio) e dunque concentrata in un momento specifico, durante il quale tutti noi ci dedichiamo (o cerchiamo di farlo) solo alla preghiera, ma diffusa e contemporanea all’agire. Mi spiego meglio. Nella mia giornata lavorativa sostanzialmente visito pazienti psichiatrici o parlo con i loro familiari o discuto con i colleghi i problemi (spesso davvero insormontabili) dei nostri pazienti. In questo consiste gran parte del mio lavoro, nell’affrontare problemi di vita di persone fragili. In alcune circostanze sono davvero in difficoltà: pazienti particolarmente gravi e distruttivi (o autodistruttivi), fragilità estreme (in una struttura che dirigo ho deciso di accogliere pazienti gravissimi che non trovano accoglienza in nessuna struttura), problemi complessi. Questa è la dimensione che definirei “precarius” del mio lavoro, che proprio mentre accade affido a Dio, con invocazioni interiori, rapide e intense. Questa preghiera interiore non ha un luogo unico, non ha un tempo determinato, non è prevedibile, è contemporanea al lavoro, è diffusa, è rapidissima ed è fatta di invocazioni e nasce dal “precarius” che incontro, ma anche dal mio “precarius” che sperimento. Nasce dalla fragilità, dall’incerto, dall’insicuro. Nel tempo si è evoluta in invocazioni più definite, atte ad accompagnare i gesti quotidiani.
Questa forma di preghiera, però, non è esattamente una mia invenzione. Anzi, è antichissima. E’ nata in me quando in adolescenza lessi i “Racconti di un pellegrino russo”, un testo pubblicato per la prima volta nel 1881, ma scritto sicuramente prima, che divulgò la pratica mistica della preghiera interiore perpetua: la preghiera del cuore, L’inizio del racconto è strepitoso: “Per grazia di Dio io sono un uomo e cristiano, per azioni gran peccatore, per vocazione un pellegrino senza terra della specie più misera, sempre in giro di paese in paese. Per ricchezza ho sulle spalle un sacco con un po’ di pane secco, nel mio camiciotto la santa Bibbia e basta. La ventiquattresima domenica dopo la Trinità sono entrato in chiesa per pregare mentre si recitava l’Ufficio; si leggeva l’Epistola dell’Apostolo ai Tessalonicesi, in quel passo dove è detto: «Pregate senza posa». Quella parola penetrò profondamente nel mio spirito, e mi chiesi come sarebbe stato possibile pregare senza posa dal momento che ognuno di noi deve occuparsi di tanti lavori per sostenere la propria vita?”. E la soluzione che il protagonista trova è altrettanto strepitosa: “Entrammo nella sua cella e lo starets mi rivolse queste parole: – La preghiera di Gesù, interiore e costante, è l’invocazione continua e ininterrotta del nome di Gesù con le labbra, con il cuore e con l’intelligenza, nella certezza della sua presenza in ogni luogo, in ogni tempo, anche durante il sonno. Si esprime con queste parole: «Signore Gesù Cristo, abbiate pietà di me!» Chi si abitua a questa invocazione ne riceve gran consolazione e prova il bisogno di dire sempre questa preghiera; dopo un po’ di tempo, non può più vivere senza ed essa scorre in lui da sola. Comprendi ora cos’è la preghiera perpetua?”. Ecco, ho applicato l’esperienza del pellegrino russo, la preghiera del cuore, alle esigenze della vita quotidiana. Io credo che la preghiera del cuore sia una forma di spiritualità valida per i laici, per tutti coloro che sono immersi nell’agire e negli infiniti e complessi problemi della quotidianità.
(Foto ufficio stampa ospedale Bambino Gesù)