Sollecitudine verso i morenti
“I progressi della medicina e le nuove tecniche assistenziali hanno conferito alla morte una nuova fisionomia. In molti casi non si tratta più di un momento preciso”, tanto che “si è passati dalla morte al processo del morire”. “Tutto ciò genera angoscia, inquietudine, solitudine”; la fine della vita terrena “risulta essere tra le esperienze umane più destabilizzanti. Per questo motivo la morte è diventata un tabù, che si tenta di isolare e negare in diversi modi: rimuovendola dai discorsi familiari, relegandola negli ospedali o nelle residenze sanitarie, banalizzandola o facendone spettacolo attraverso i mezzi di comunicazione. Oggi è quindi difficile parlare della morte in modo che la paura e l’angoscia vengano riconosciute e assunte con serietà e pacatezza”. Lo scrive mons. Carlo Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute, nella presentazione del documento “Alla sera della vita. Riflessioni sulla fase terminale della vita terrena” (editoriale Romani), presentato oggi in conferenza stampa online.
“L’esperienza pandemica – prosegue Redaelli – ha acuito questi scenari in modo imprevedibile e dirompente”; dinanzi a questa situazione, “la Chiesa intende annunciare e vivere la propria missione. Essa accoglie l’appello di un’umanità che chiede cura e speranza, rivolgendo un forte invito alla società a riflettere e ricercare il modo più umano per esprimere attenzione e sollecitudine verso le persone che si avvicinano alla fine della vita terrena e verso coloro che li accompagnano”. Il presule esprime profonda stima e gratitudine a tutti coloro che a vario titolo – assistenti spirituali, medici, infermieri, équipe assistenziali, amministratori – operano “per garantire qualità e dignità nel percorso di fine vita terrena” con “competenza e umanità” testimoniando “cura, relazione e prossimità”. Di qui il documento, “strumento pastorale offerto a tutti, in particolare a coloro che vivono l’esperienza del dolore e della sofferenza, a tutti i curanti che li accompagnano, agli operatori sanitari, agli animatori della pastorale della salute e alle comunità cristiane sananti chiamate alla prossimità con i più deboli”.
La pastorale della salute “abita i luoghi della sofferenza per stare accanto ai malati, ovunque essi siano, nelle strutture o nelle case. Si prende cura di loro, soprattutto delle loro relazioni ferite”, a cominciare dalla relazione con se stessi, con gli altri e fino alla relazione con Dio. “In ascolto delle persone malate, nel rispetto della loro esperienza, vogliamo tenere la mano a tutti i sofferenti, perché nessuno si senta abbandonato, non curato, non accompagnato”. Così don Massimo Angelelli, direttore Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, nella prefazione del documento “Alla sera della vita. Riflessioni sulla fase terminale della vita terrena” (editoriale Romani 2020),