Il sisma due anni dopo
“Da dove ripartire dopo un terremoto?”: due anni dopo il sisma del 24 agosto 2016 a chiederselo è il vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, che sulla risposta non ha dubbi: "Dalle persone le cui ferite invisibili restano lancinanti e hanno bisogno di vicinanza per poter convivere con esse”
“Da dove ripartire dopo un terremoto?” Sono passati 2 anni dal sisma delle 3.36 del 24 agosto 2016 che colpì il Centro Italia devastando moltissimi borghi, tra i quali Amatrice e Accumoli, lasciandosi dietro una lunga scia di morti. E la domanda oggi resta più che mai valida. Basta guardare ciò che resta di Amatrice per comprenderne l’urgenza. Oggi l’antico corso del borgo dei monti della Laga è un nastro nero di asfalto delimitato da palizzate in legno che impediscono la vista delle aree sgombrate dalle macerie percorso avanti e indietro da auto e mezzi meccanici a lavoro. Mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, non ha dubbi sulla risposta: “Occorre ripartire dalle persone, le cui ferite invisibili restano lancinanti e hanno bisogno di vicinanza per poter convivere con esse”.
Ricostruire case, palazzi, infrastrutture non basta, serve “rigenerare” le persone.
Un monito che il vescovo lanciò subito, durante il funerale delle vittime del terremoto, ad Amatrice. Era il 31 agosto 2016: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò… sono mite e umile di cuore”. Le parole di Gesù, ricordava il vescovo, “sono come un balsamo sulle ferite fisiche, psicologiche e spirituali di tantissimi. Troppi. Non basteranno giorni, ci vorranno anni. Sopra a tutto è richiesta una qualità di cui Gesù si fa interprete: la mitezza”.
La mitezza dice “un coinvolgimento tenero e tenace, di un abbraccio forte e discreto, di un impegno a breve, medio e lungo periodo. Solo così la ricostruzione non sarà una ‘querelle politica’ o una forma di sciacallaggio di varia natura, ma quel che deve: far rivivere una bellezza di cui siamo custodi. Disertare questi luoghi sarebbe ucciderli una seconda volta. Abitiamo una terra di pastori. Dobbiamo inventarci una forma nuova di presenza che salvaguardi la forza amorevole e tenace del pastore”.
- Tre progetti per rigenerare questa terra e la sua gente. Dopo due anni, e con “una ricostruzione ancora nel guado”, questa “forma nuova di presenza” trova spazio in tre progetti concreti voluti fortemente dalla Chiesa locale: “L’apertura, ad Amatrice, di una sezione del costituendo museo diocesano, la presentazione del progetto Casa del Futuro da realizzarsi all’interno di quella che era l’area, oggi distrutta, dell’Istituto ‘Don Minozzi’ e le comunità Laudato si’”. Un museo per custodire la bellezza di un territorio caratterizzato dalla presenza di innumerevoli chiese che, annota il vescovo, “avevano all’interno tantissime opere d’arte, molte delle quali, circa 3.000, sono state recuperate grazie al Mibact e all’ufficio diocesano dei beni culturali coadiuvato da tantissimi volontari”.
Rigenerare vuole dire anche “preservare il genius loci, l’identità di questa terra,
di cui l’arte è un tassello importante. L’apertura del museo, che si avvale di particolari tecnologie, è un modo per ribadire che la ricostruzione e la rigenerazione si fanno con la vicinanza delle persone, con la ripresa economica e del lavoro e anche con la memoria di ciò che ha segnato la storia di questo territorio”. Significativo sarà allora il contributo delle Comunità Laudato si’, iniziativa congiunta di diocesi di Rieti e di Slow Food di Carlo Petrini, per far nascere il centro studi internazionale denominato “Casa del Futuro – Centro Studi Laudato si’”, dedicato alle tematiche ambientali e alle loro ricadute sociali: “Partiamo da una terra ferita dal terremoto, che attende impazientemente di essere non già ricostruita, ma piuttosto rigenerata”, ribadisce il vescovo di Rieti, che non manca di ricordare che “nella sua singolare drammaticità,
Amatrice è una metafora del nostro Paese che deve essere ricostruito e rimesso in piedi”.
foto SIR/Marco Calvarese
Ricostruzione e rigenerazione. “Casa del Futuro sarà un luogo di rinascita e di innovazione che ripartirà dall’area terremotata dell’Istituto Don Minozzi, progettato da Arnaldo Foschini negli anni ‘20 per ospitare gli orfani di guerra e divenuto così uno spazio centrale nella vita e nella storia di Amatrice e di questi territori”, afferma il suo progettista, l’architetto di fama internazionale Stefano Boeri, che ad Amatrice ha realizzato anche il “Polo del Gusto” inaugurato il 29 luglio dello scorso anno. “L’idea è quella di farla diventare
una vera scuola del futuro,
un luogo dove i giovani del mondo, e non solo loro, vengano chiamati qui a ragionare sul futuro e a trasmettere conoscenze legate al territorio come l’artigianato, il turismo, la cucina. Una scuola che si ispira ad una idea di comunità, che è uno dei concetti basilari dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco”.
Nel progetto di Boeri il Don Minozzi si “rigenererà” attorno a quattro corti. “La corte – spiega infatti l’architetto – è un luogo di comunità, di incontro. La prima corte sarà dedicata al senso civico, al bene comune. La seconda, quella più centrale, occupata in origine dal don Minozzi, sarà legata alla memoria e al silenzio. La terza sarà il luogo dell’accoglienza dei giovani che arriveranno e la quarta, l’ultima, dotata di un edificio più alto che guarda alla bellezza di questo paesaggio rappresentato dai monti della Laga, sarà dedicata alla ricerca, ai laboratori, alle arti e ai mestieri e al fare del futuro”.
Un progetto, dunque, che non si ferma alla ricostruzione ma che punta dritto alla rigenerazione. Il pensiero di Boeri corre alla gente di Amatrice e del territorio circostante: “Queste sono popolazioni straordinarie che hanno saputo superare un trauma pazzesco. Quando a tremare è la terra dove tu sei nato e cresciuto, vivi il terremoto come un tradimento a volte irreversibile. Chi ha avuto la forza e il coraggio di tornare qui, a lavorare, a ristabilire dei legami, merita moltissimo. Hanno una fiducia incredibile”. “Mi auguro – conclude l’architetto – che questa fiducia sia dovuta anche alla presenza, alla generosità e alla sensibilità di tutti gli italiani, perché c’è stato un momento, dopo il terremoto, in cui il nostro Paese ha dato il massimo. Se penso, invece, a questi ultimi mesi, mi sembra di vivere in un Paese dove prevale l’egoismo. Tornare a quei giorni significa tornare all’Italia che ci piace”.