Don Panizza: Vogliamo cambiare le cose
“Pensieri e parole”. Di novità. Oltre la criminalità, oltre le difficoltà di un territorio in continua ricerca di riscatto. Siamo a Lamezia, in via dei Bizantini 95, e “Pensieri e parole” fa da denominazione e da cartolina all’immobile confiscato al clan Torcasio alla fine del secolo scorso. Dal 2002 la palazzina all’ingresso dell’area urbana lametina, a poche rotatorie dall’autostrada, è affidato alla Comunità Progetto Sud. La tenacia, la fede e il desiderio di cambiare la difficile parabola del territorio di don Giacomo Panizza hanno permesso che, in questo luogo, al centro della Calabria, si dischiudessero degli “spazi sociali e di legalità”, come i protagonisti li definiscono. A venticinque anni dall’entrata in vigore della legge sui beni confiscati, la n. 109/1996, tra bilanci e prospettive, il racconto della realtà nata a Lamezia getta luce sulla reale possibilità che qualcosa di buono può davvero costruirsi. Lo racconta al Sir lo stesso don Giacomo.
Don Giacomo Panizza, dove ci troviamo e quali sono le attività realizzate?
Siamo in una struttura confiscata dallo Stato al clan Torcasio di Lamezia e dal 2002 concessa in uso sociale alla Comunità Progetto Sud. Oggi all’interno di questo immobile trovano sede il Forum regionale del terzo settore, la Federazione italiana per il superamento dell’handicap Calabria, e trovano accoglienza, in due appartamenti, alcuni ragazzini stranieri. Poi abbiamo la Casa famiglia “Dopo di noi”, che accoglie persone con disabilità senza famiglia, poi ancora lo sportello di Banca popolare etica. Qui realizziamo le nostre idee e le nostre attività, grazie anche alla biblioteca e alla videoteca.
A distanza di 25 anni, che bilancio è possibile fare riguardo alla legge sui beni confiscati?
Funziona poco. Laddove c’è qualcosa che si fa, allora la legge ha i suoi frutti, ma ci sono tante case ferme. Uno dei problemi è che il pubblico, gli Enti competenti, dovrebbero dare un maggiore apporto. Sono tante le iniziative partite e poi non proseguite, perché il segreto è fare le cose insieme, quando invece spesso accade che i Comuni concedano i beni confiscati e poi lascino ai beneficiari ogni onere.
Cosa si potrebbe fare?
Dovremmo impegnarci a fare qualcosa di più, non soltanto le cooperative, le associazioni, i gruppi parrocchiali, ma in modo particolare i nostri Comuni. I beni confiscati non sono case pronte, da utilizzare per fare delle attività insensate. Se vogliamo cambiare le cose per una giustizia più giusta è ora di farlo tutti insieme. Soprattutto quando sono in gioco la legalità e la gestione di un bene pubblico.
Facciamo un passo indietro. Dalla Lombardia alla Calabria per svolgere il suo operato di sacerdote. Cosa l’ha spinta?
Nel 1975 l’Italia era spezzata in due riguardo ai servizi sociali, ai diritti, alla scuola; non c’era ancora la riforma sanitaria, le regioni del Sud come la Calabria erano in difficoltà. In quel contesto non c’era chi pensava alle persone in carrozzina. Da lì ho sentito di dover fare qualcosa. Così ho iniziato a dare una mano in Calabria con il sostegno della Comunità di Capodarco. Abbiamo fatto un sacco di cose. L’idea era: iniziamo da noi a cambiare le cose. Quando ho deciso di venire qui, l’ho fatto proprio perché mentre in Lombardia i diritti c’erano, qui no.
Diceva che la Calabria all’epoca era tra le regioni in difficoltà. E ora?
Ora purtroppo le difficoltà continuano. A fine dicembre scorso la Calabria ha fatto il piano sociale regionale, con il quale si potranno fare i piani di zona per i servizi sociali. Il fatto è che la legge in Italia è del 2000, quindi il Piano è arrivato oltre vent’anni dopo la legge statale. A questo si aggiunga che la sanità è commissariata e che c’è una modalità di gestione della cosa pubblica un po’ strana.
L’iniziativa di operare sul bene confiscato è un atto di amore?
È un atto di rabbia e di amore, una mescolanza. La rabbia è che all’epoca in cui abbiamo iniziato la gente non pronunciava le parole ‘ndrangheta e mafia, si parlava di ‘bulli’ o di ‘ragazzacci’, mentre dietro c’erano dei boss. Erano cose che noi sperimentavamo dall’inizio, perché per mantenerci avevamo messo su dei laboratori di rame, cornici, legno, e anche allora ci venivano a chiedere il pizzo. Così, vi siete messi in gioco. In quel contesto già personalmente ero impegnato per favorire la realizzazione della legge sui beni confiscati, nella consapevolezza che è giusto che i beni confiscati vengano riutilizzati per fare cittadinanza e solidarietà. A quell’epoca il comune di Lamezia era commissariato. Abbiamo chiesto di poter partecipare al riutilizzo dei beni confiscati perché volevamo esserci. Dopo una serie di vicende, abbiamo acquisito il bene in concessione aprendo la strada a un impegno nuovo per il territorio. Questa struttura è simbolica, perché confiscata proprio nel cortile dei Torcasio.
Una scelta coraggiosa?
Siamo una famiglia numerosa, abbiamo deciso tutti insieme. Quando dissi alla Comunità che ci sarebbe stata la possibilità di ottenere il bene confiscato all’inizio ci fu un silenzio. Poi, alcune persone con disabilità, in carrozzina, intervennero per prime: “Regaliamo alla città l’opportunità di avere meno paura, ci esponiamo noi”. Così abbiamo cominciato a venire ad abitare qui.
Da lì è iniziata una nuova avventura.
Abbiamo giocato la carta del fare e del servire, di “pensieri e parole”, di far parlare una casa che era simbolo del potere del clan. Qui tutto diceva di illegalità.
La criminalità ha provato ancora a farsi sentire. Tanti gli episodi di minaccia intorno alla struttura. Ma lei ha paura?
Sì, ho paura, perché negli anni più volte sono stato minacciato. Però credo che le cose vadano cambiate, e qualcuno deve pur impegnarsi. Non da solo, perché quello che sto facendo lo faccio con un gruppo grande, sto dentro a un mondo. Piuttosto, negli anni è aumentato il numero di persone contro i clan, ma c’è ancora troppa altra gente che purtroppo tace.