Costruire il futuro con i migranti
Presentato il XXXI Rapporto Immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, sul tema “Costruire il futuro con i migranti”. A fare da sfondo alla nuova edizione del Rapporto Immigrazione sono la ripresa dopo la pandemia e le prospettive di miglioramento, ma anche le rinnovate sofferenze causate dalla guerra
E’ stata presentata questa mattina la 31sima edizione del Rapporto Immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, dal titolo “Costruire il futuro con i migranti” Di seguito ne viene proposta un’ampia sintesi.
Il numero di migranti internazionali è stimato in 281 milioni nel 2021 (3,6% della popolazione mondiale), a fronte dei 272 milioni del 2019. Di questi, quasi due terzi sono migranti per lavoro. La principale causa dell’aumento del numero complessivo di persone che si trovano a vivere in un Paese diverso dal proprio sta nell’acuirsi e nel protrarsi del numero di contesti di crisi registrati a livello mondiale, che hanno fatto superare ad inizio 2022 per la prima volta nella storia la soglia di 100 milioni di migranti forzati (con un notevole incremento rispetto agli 89,3 milioni di fine 2021). Significativa anche l’esistenza di circa 345 milioni di persone a grave rischio alimentare, quasi 200 milioni in più rispetto a prima della pandemia. Nell’area del Mediterraneo allargato si registra un incremento della situazione di vulnerabilità della popolazione straniera residente, con pesanti conseguenze sui processi di integrazione dei migranti nei Paesi di destinazione.
L’attuale edizione del Rapporto Immigrazione è la prima post-pandemia: i dati attestano sia lenti segnali di ripresa sia criticità e fatiche dei cittadini italiani e stranieri, dovute ad una scarsa attenzione delle politiche sociali verso le fasce più fragili della popolazione nel periodo culminante dell’emergenza sanitaria.
Fra i segnali incoraggianti troviamo, ad esempio, la ripresa della crescita della popolazione straniera residente in Italia: i dati al 1° gennaio 2022 parlano di 5.193.669 cittadini stranieri regolarmente residenti, cifra che segna una ripresa dallo scorso anno. Nel quadro delle prime 5 regioni di residenza, si conferma il primato della Lombardia, seguita da Lazio, Emilia-Romagna e Veneto, mentre la Toscana sopravanza il Piemonte al 5° posto. Il quadro delle nazionalità rimane sostanzialmente inalterato: fra i residenti prevalgono i rumeni (circa 1.080.000 cittadini, il 20,8% del totale), seguiti, nell’ordine, da albanesi (8,4%), marocchini (8,3%), cinesi (6,4%) e ucraini (4,6%). Sono aumentati anche i cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno (al 1° gennaio 2022 sono 3.921.125, mentre nel 2021 erano attestati sui 3,3 milioni), così come i nuovi permessi di soggiorno rilasciati nell’anno: nel corso del 2021 sono stati 275 mila, +159% rispetto al 2020 (105.700); in particolare si è registrata un’impennata dei motivi di lavoro, certamente come esito della procedura di sanatoria varata dal governo nel 2020. Anche i provvedimenti di cittadinanza hanno segnato una certa crescita: sono stati 118 mila nel 2020, ovvero un +4% dall’anno precedente.
Secondo le stime dell’Istat, nel 2021 le famiglie con almeno un componente straniero sarebbero il 9,5% del totale (ovvero 2.400.000); di queste 1 su 4 è mista (con componenti sia italiani che stranieri) e 3 su 4 hanno componenti tutti stranieri. Rispetto alle diverse tipologie delle famiglie, quelle unipersonali (composte da single/vedovi/separati/ divorziati) è per i cittadini stranieri leggermente più elevata che per gli italiani (34,7% contro 33,4%) ed è più cospicua anche la tipologia di coppia con figli conviventi senza altre persone (36,6% per i cittadini stranieri e 31,0% fra gli italiani). Rispetto ai ragazzi italiani è più alta di oltre 4 punti percentuali la quota di minori stranieri che vivono solo con la madre, mentre è più bassa la quota di quelli che vive con entrambi i genitori o solo con il padre.
In generale la popolazione straniera ha una struttura più giovane di quella italiana: ragazze e ragazzi con meno di 18 anni rappresentano circa il 20% della popolazione e per ogni anziano (65 anni o più) ci sono più di 3 giovanissimi di età compresa fra gli 0 e i 14 anni. I ragazzi nati in Italia da genitori stranieri (“seconde
generazioni” in senso stretto) sono oltre 1 milione e di questi il 22,7% ha acquisito la cittadinanza italiana; se ad essi aggiungiamo i nati all’estero, la compagine dei minori stranieri (fra nati in Italia, nati all’estero e naturalizzati) supera quota 1.300.000 e arriva a rappresentare il 13,0% del totale della popolazione residente in Italia con meno di 18 anni.
Si è assistito nell’ultimo anno anche al preoccupante aumento del numero dei minori stranieri non accompagnati, arrivati nell’aprile del 2022 a 14.025, certamente anche per effetto della guerra in Ucraina, da cui proviene il 28% circa del totale. Il 46,4% dei giovani stranieri si dichiara molto o abbastanza preoccupato per il futuro: i timori riguardano principalmente la guerra, la povertà o il peggioramento delle condizioni economiche. Emerge altresì che i giovani stranieri (e le ragazze più dei ragazzi) sognano un futuro in altri Paesi molto più dei coetanei italiani (59% contro il 42%). Il quadro socio-anagrafico si presenta dunque per diversi aspetti preoccupante e pone l’urgenza di politiche che potenzino efficacemente le opportunità da offrire ai ragazzi stranieri, anche per non disperdere il potenziale prezioso che rappresentano per un’Italia sempre più vecchia.
Al I° trimestre 2022 i dati Istat relativi alla Rilevazione sulle forze di lavoro registrano, dopo un forte calo dell’anno precedente, una crescita del tasso di occupazione dei lavoratori stranieri tra i 20 e i 64 anni, più significativo rispetto a quello registrato tra i lavoratori italiani (+1,5 contro +0,8). Se questa è la media nazionale, molto diverse sono le situazioni a livello di aree: tutte quelle del Nord Italia crescono, il Centro rimane sostanzialmente stabile, il Sud cresce solo debolmente. In generale, poi, il tasso di occupazione per la componente straniera è ancora al di sotto di quello registrato per i lavoratori italiani (61,4% contro 62,9%), mentre quello di disoccupazione presenta tra gli stranieri un valore ancora particolarmente elevato, pari al 14,4%, ovvero 5,4 punti percentuali in più rispetto a quello registrato tra gli autoctoni (9,0%).
Fra gli indicatori che hanno segnato una ripresa vi sono i dati sulle assunzioni di personale comunitario ed extra-Ue, aumentate in modo significativo rispetto alla fase pandemica. Nel complesso, fra il II° trimestre 2020 e il II° trimestre 2021 si è registrato in Italia un incremento delle assunzioni pari a 1.149.414 unità, di cui 124.230 hanno riguardato la componente extracomunitaria e 35.520 quella comunitaria. Si è trattato di una crescita che ha interessato maggiormente lavoratrici e giovani lavoratori under-24, che nella fase pandemica erano risultate le categorie più penalizzate dalla crisi. L’incremento più significativo delle assunzioni di cittadini stranieri si è avuto nel settore dell’Industria, in particolare nel Nord Italia; altro settore interessato da incrementi significativi è stato quello del Commercio e riparazioni, seguito da Costruzioni e altre attività nei servizi.
Permangono diverse criticità: gli incrementi più significativi nelle tipologie di ingaggio sono l’apprendistato e le collaborazioni; rispetto agli italiani è stata molto più modesta la crescita dei contratti a tempo indeterminato (circa l’11% contro oltre il 40%), a dimostrazione del fatto che i lavoratori stranieri vivono una maggiore precarietà sul lavoro: 7 contratti su 10 sono a termine; inoltre, ad un aumento delle assunzioni ha fatto da contraltare un incremento delle cessazioni dei rapporti di lavoro (+ 9,9% tra i lavoratori Ue e 28,0% tra quelli extra-Ue).
Come rilevato dall’Istat, la progressiva diffusione di forme di lavoro non-standard – ovvero rapporti di lavoro che mancano di uno o più elementi che caratterizzano il lavoro tradizionale (regolarità, requisiti assicurativi minimi, copertura assicurativa generalizzata, adeguato livello di protezione sociale in caso di perdita di lavoro o congrua contribuzione pensionistica) – ha reso più fragile la condizione di molti lavoratori, in particolare di cittadinanza straniera, anche in termini di esclusione sociale. In Italia, su 100 lavoratori, circa 18 sono classificati come lavoratori vulnerabili, perché dipendenti a termine o collaboratori o in part-time involontario, mentre 4 sono classificati addirittura come doppiamente vulnerabili: in termini assoluti si tratta di un esercito di 816 mila lavoratori.
L’alto livello di occupabilità dei migranti in Italia è in gran parte dovuta alla loro disponibilità a ricoprire lavori manuali non qualificati, spesso poveramente pagati: questo provoca un fenomeno di “etnicizzazione” delle
relazioni di lavoro, connotando fortemente alcuni settori occupazionali, come ad esempio il lavoro di cura. L’accentuarsi e il protrarsi di questo divario di tutele e di disuguaglianze economiche, accelerato dalla pandemia, rischiano di trasformarsi in una condizione permanente, un vero e proprio status non solo occupazionale, dal quale difficilmente si potrà uscire.
In un quadro complessivamente critico, esistono comunque dei positivi paradossi. In Italia si contano 136.312 imprese a conduzione femminile straniera, pari all'11,6% delle attività guidate da donne e al 23,8% delle imprese fondate da immigrati. Negli ultimi dieci anni sono aumentate del 42,7% e sono cresciute con un ritmo maggiore rispetto a quelle a conduzione maschile. Le titolari sono nate all’estero, soprattutto in Cina (34 mila), Germania (10 mila) e Albania (8 mila) e le loro aziende crescono a un tasso più elevato di quelle a guida maschile. Le donne con background migratorio che fanno impresa in Italia rappresentano circa il 10% di tutte le imprenditrici attive nel Paese. In Italia le imprenditrici immigrate, a fine 2021, sono 205.951, pari al 27,3% degli imprenditori nati all'estero, l'80% delle quali possiede imprese individuali. Indubbiamente il processo di crescita di queste aziende si inserisce in un percorso di integrazione positiva, che però non deve fare dimenticare che ci sono situazioni di famiglie immigrate – provenienti soprattutto da India, Bangladesh, Egitto e Marocco – dove la maggioranza delle donne è ancora esclusa dal mercato del lavoro.
Le persone di origine straniera che sono transitate nel corso del 2021 nei Centri di Ascolto della Caritas (CdA) sono state 120.536. Sul totale, gli stranieri incidono per il 55% e rispetto allo scorso anno aumentano di tre punti percentuali sul totale dell’utenza (nel corso del 2020 erano stati pari al 52%) e del +13,3% in termini di valori assoluti. Si conferma dunque, il loro prevalente protagonismo fra le persone che si rivolgono ai CdA.
Nelle regioni del Nord e del Centro Italia il volto delle persone prese in carico dalla Caritas coincide per lo più con quello degli stranieri (in queste macro-aree gli immigrati rappresentano rispettivamente il 64,1% e il 56,8%); nel Mezzogiorno, invece, dove si registrano più alti livelli di povertà e di disoccupazione e, al contempo, un minore peso della componente straniera residente, le storie intercettate sono per lo più di italiani e gli stranieri costituiscono una quota ridotta, pari al 28,5%.
Gli utenti stranieri della Caritas appartengono a 189 diverse nazionalità, ma, come per l’anno precedente, il podio spetta a tre nazionalità: Marocco (21.177 persone, pari al 18,1%), Romania (9.450, 7,8%) e Nigeria (8.844, 7,3%).
Si conferma una diminuzione degli stranieri provenienti dall’Europa dell’Est, a fronte di un incremento degli africani: il 48,8% delle presenze (sopra il migliaio di unità) proviene dal continente africano, con una forte incidenza delle nazioni maghrebine e nordafricane, che raggiungono da sole il 25,6% delle presenze.
Dall’analisi e dalla comparazione dei bisogni espressi sia dagli utenti di nazionalità italiana che straniera, emerge che:
- l’incidenza della povertà economica tra gli stranieri (78,0%) è di poco inferiore a quella registrata tra gli italiani (82,4%);
- i problemi lavorativi coinvolgono quote simili di italiani e stranieri (48,1% e 48,3%);
- i problemi abitativi appaiono più diffusi tra gli utenti di nazionalità non italiana (24,6% contro il 17,1%);
- le problematiche familiari (separazioni, conflitti, abbandono, maltrattamenti, maternità indesiderate, morte di un congiunto, ecc.) sono molto più diffuse tra gli italiani (18,2%) che tra gli stranieri (8,9%);
- come ovvio, i bisogni determinati dalla migrazione sono presenti all’interno della componente straniera (14,7%), e riguardano in modo particolare problematiche legate a questioni inerenti alle domande di asilo/permessi di soggiorno, alla irregolarità giuridica e/o problemi burocratici/amministrativi. Da quasi un decennio quest’ultimo tipo di problemi risulta in forte aumento, anche a causa di una maggiore capacità di intercettazione dei casi da parte di alcune Caritas diocesane;
- poco diffuse, nel complesso, alcune problematiche che trovano risposta presso contesti assistenziali diversi dai Centri di Ascolto (dipendenze, carcere, handicap, ecc.).
Una novità dell’anno scolastico 2020/2021 è la diminuzione del numero degli alunni con cittadinanza non italiana: 865.388 in totale, con un calo di oltre 11 mila unità rispetto all’anno precedente (-1,3%). È la prima volta che accade dal 1983/1984, anno scolastico a partire dal quale sono state fatte rilevazioni statistiche attendibili. L’incidenza percentuale degli alunni con cittadinanza non italiana sul totale della popolazione scolastica rimane inalterata (10,3%) perché è diminuito il numero totale degli alunni, ovvero sono diminuiti anche gli alunni di cittadinanza italiana. La Lombardia si conferma la regione con il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana (220.771), mentre l’Emilia-Romagna quella con l’incidenza percentuale più alta (17,1% sul totale della popolazione scolastica regionale). Si confermano ai primi posti le province di Prato (28,0% del totale), Piacenza (23,8%), Parma (19,7%), Cremona (19,3%), Mantova (19,1%) e Asti (18,8%). I dati mettono in evidenza la costante crescita delle nuove generazioni, ovvero degli alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia: si tratta del 66,7% degli studenti provenienti da contesti migratori, un punto percentuale in più rispetto al 2019/2020. Sebbene in miglioramento rispetto al passato, il ritardo scolastico è ancora un grande ostacolo per l’integrazione degli alunni con cittadinanza non italiana nel sistema educativo italiano, tanto più che gli alunni con cittadinanza non italiana continuano a rimanere quelli a più alto rischio di abbandono.
Se si guarda alla serie storica 2010/2011-2020/2021, si rileva una crescita degli studenti stranieri iscritti negli atenei italiani del 62%. In prevalenza di genere femminile, hanno seguito nel decennio di riferimento un andamento di crescita, seppur lieve, a fronte di una diminuzione del numero di iscritti totali registrata negli anni accademici tra il 2011/2012 e il 2015/2016.
Le regioni con il più alto numero di iscritti stranieri nell’anno accademico 2020/2021 sono Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna e Piemonte, mentre i principali Paesi di origine sono Romania (11,0%), Albania (8,7%) e Cina (8,1%). Questi dati dimostrano che le provenienze e la distribuzione regionale degli studenti universitari stranieri sono strettamente collegate alle statistiche relative alla presenza dei cittadini stranieri residenti in Italia. Si deduce, quindi, che si tratti di una parte importante di “studenti stranieri” che vivono sul territorio nazionale già da tempo, dove hanno conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado, e non veri e propri foreign students.
Analizzando i dati della realtà carceraria emerge che l’incidenza della componente straniera è decisamente in controtendenza: a fronte dell’aumento generale del numero dei detenuti (+1,4), infatti, la presenza straniera, a distanza di un anno, è sostanzialmente diminuita (-1%). Il dato è in linea con il trend dell’ultimo decennio, nel corso del quale le cifre dei detenuti di cittadinanza straniera si sono notevolmente contratte.
Dall’Africa proviene più della metà dei detenuti stranieri (53,3%) e il Marocco è in assoluto la nazione straniera più rappresentata (19,6%). Seguono Romania (12,1%), Albania (10,8%), Tunisia (10,2%) e Nigeria (7,8%). Nelle sezioni femminili, su un totale di 722 recluse straniere, spiccano soprattutto le detenute provenienti da Romania (24,1%), Nigeria (17,7%) e Marocco (5,8%). Pur se con cifre ogni anno sempre più esigue, si segnala ancora la presenza di madri detenute con figli al seguito, la metà dei quali di cittadinanza straniera.
Le statistiche relative alle tipologie di reato confermano il dato generale che vede i reati contro il patrimonio come la voce con il maggior numero di ristretti (8.510 stranieri imputati o condannati per tale fattispecie di reato, ovvero il 27% dei ristretti per il reato in questione e il 49,9% dei detenuti stranieri). Seguono i reati contro la persona (7.285) e quelli in materia di stupefacenti (5.958).
I dati restituiscono ancora una volta la fotografia di un sistema in cui le persone migranti finiscono con più facilità nel sistema carcerario e ne escono meno agevolmente degli italiani. Se le pene inflitte denotano una minore pericolosità sociale degli immigrati, gli stessi beneficiano in maniera più blanda delle misure alternative rispetto ai detenuti autoctoni. Agli stranieri, inoltre, viene applicata con maggiore rigore la custodia cautelare in carcere: ben il 32% degli stranieri detenuti è in attesa del primo grado di giudizio. Circostanza, questa, che finisce con il determinare una sovra-rappresentazione della popolazione carceraria straniera.
Le condizioni di marginalità in cui spesso versa la popolazione migrante ne determina una maggiore esposizione al rischio di essere vittima di reato. Il catalogo dei reati di cui gli stranieri sono soggetti passivi è, purtroppo, assai vasto e spazia dai reati più efferati, a cominciare dalla tratta di esseri umani, alle molteplici ed “ordinarie” forme di vittimizzazione che rimangono spesso sommerse. In cima alla lista dei reati più odiosi vi sono certamente quelli che vedono come vittime i minori. In tal senso, gli stranieri hanno rappresentato il 4% delle vittime di reati sessuali segnalate e prese in carico per la prima volta nel 2021 dall’Ufficio di servizio sociale per i minorenni. Gli stranieri vittime di altre forme di sfruttamento e maltrattamento sono stati invece il 9% del totale dei minori segnalati e presi in carico nello stesso periodo.
Come tristemente anticipato nella scorsa edizione, l’analisi dei decessi nel primo anno della pandemia mostra un netto svantaggio a carico della popolazione di nazionalità straniera residente in Italia. Durante la crisi sanitaria pandemica centinaia di migliaia di persone, tra cui tanti immigrati, si sono trovate escluse dalle tutele, dai programmi di mitigazione e di prevenzione (ad esempio, tamponi e vaccini), dai ristori e, probabilmente, anche dalle future politiche di rilancio. Alcuni ambiti di tutela, in particolare quelli relativi alle donne in gravidanza e ai neonati, sperimentano poi, indipendentemente dalla pandemia, un grave ritardo nei confronti della popolazione di cittadinanza italiana. Le disuguaglianze nei profili sanitari degli immigrati devono essere considerate degli eventi “sentinella” rispetto all’efficacia delle politiche di integrazione e segnalano l’urgenza di un miglioramento della capacità di presa in carico dei bisogni di salute dell’intera popolazione.
Conteggiando l’appartenenza religiosa anche dei minorenni di qualsiasi età, le stime indicano i cittadini stranieri musulmani residenti in Italia al 1° gennaio 2022 in 1,5 milioni, il 29,5% del totale dei cittadini stranieri, in aumento rispetto allo scorso anno (quando erano meno di 1,4 milioni, pari al 27,1%). Si tratta soprattutto di cittadini marocchini, albanesi, bangladeshi, pakistani, senegalesi, egiziani e tunisini. I cittadini stranieri cristiani residenti in Italia scendono, invece, al di sotto dei 2,8 milioni (a fronte dei quasi 2,9 milioni dello scorso anno), ma si confermano la maggioranza assoluta della presenza straniera residente in Italia per appartenenza religiosa, seppure in calo dal 56,2% al 53,0% del totale. Nell’ultimo anno all’interno del collettivo cristiano ha perso numerosità soprattutto la componente ortodossa, con meno di 1,5 milioni di migranti residenti in Italia al 1° gennaio 2022, pari al 28,9% del totale degli stranieri. Si tratta di cittadini in larga maggioranza originari della Romania. I cittadini stranieri di religione cattolica rappresentano la seconda confessione quantitativamente più rilevante tra gli stranieri cristiani residenti in Italia e al 1° gennaio 2022 si stimano in 892mila (17,2% dei cittadini stranieri sul territorio nazionale), contro i 866 mila di un anno fa. Si tratta per lo più di cittadini provenienti da Filippine, Albania, Polonia, Perù ed Ecuador. Un interesse particolare – in questo momento storico segnato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – è, infine, naturalmente da porre sul collettivo ucraino, per un insieme di motivi di contingenza migratoria.
Prima con la riconquista talebana del potere in Afghanistan e in seguito con la guerra in Ucraina, l’accoglienza è tornata ad essere una tematica di rilievo nel racconto mediatico della mobilità. Si tratta di un ambito che nella narrazione del fenomeno immigratorio in Italia ha sperimentato fasi anche molto diverse fra loro, in concomitanza con momenti differenti della storia politica e sociale del Paese (2013-2017, 2018-2021, 2022). Il rinnovato spirito di accoglienza non rappresenta, però, una novità, bensì la logica conseguenza di diversi fattori che da anni caratterizzano la narrazione della mobilità, fra i quali la perdurante visione delle migrazioni come fenomeno esclusivamente emergenziale. In Italia molta parte dello storytelling vive ormai da anni di “emergenze”, con un netto incremento nel tempo della pandemia. Un cambiamento è tanto più necessario ed urgente se si considera che la maggior parte delle realtà che oggi si trovano ad operare per il dialogo interculturale privilegia l’uso dei media, della cultura e delle arti performative non per una “gestione dell’emergenza” quanto piuttosto come supporti per documentare e valorizzare le storie di vita di cui sono portatrici le persone migranti (41%) e per facilitare l’inclusione sociale a medio termine (31%) e nuove forme di convivenza tra cittadini italiani e non (20%).