Sognare la città: le beatitudini
Una riflessione del delegato per la pastorale della cultura, mons. Giacomo Canobbio, in occasione della presentazione del tema della terza annualità di Corpus Hominis
Da Tommaso Moro, a Tommaso Campanella, all’ignoto pittore de “La città ideale” custodita a Urbino, sono molti i pensatori che hanno immaginato la città nella quale l’armonia fosse pervasiva. Utopia che ha dovuto fare i conti con i limiti e le paure degli esseri umani, i quali faticano, pur desiderandolo, ad accettare di essere protagonisti di ciò che sognano. Quando si è avviato il percorso di Corpus Hominis si è voluto dare voce a un desiderio che, come in contro canto, era ed è coglibile nel lamento: la città, non quella ideale, bensì la nostra, quella che ogni giorno ci avvolge, dovrebbe/potrebbe diventare l’ambiente nel quale tutti possano sentirsi a casa, ugualmente protetti e ugualmente responsabili. Sorgente della realizzazione del desiderio avrebbe dovuto essere un Corpo, quello eucaristico, capace di modellare il corpo ecclesiale che si pensa segno e strumento di un corpo sociale coeso, dai molti volti, libero da privilegi e da sopraffazioni, luogo di dialogo e di corresponsabilità.
Presuntuosa prospettiva, a parere di critici osservatori. Eppure permane nel cuore della vita ecclesiale la consapevolezza donata di non dover cedere mai ai denigratori di utopia: nel DNA della vita ecclesiale si custodisce una promessa che impedisce la rassegnazione al dato di fatto, ai disastri colpevoli, alla constatazione delle impotenze. Questa promessa è scritta nella pagina forse più rivoluzionaria di tutta l’antichità, e proprio per questo mai caduca: la pagina che raccoglie le beatitudini proclamate da Gesù all’inizio della sua predicazione. Si tratta di un annuncio che ribalta le logiche alle quali obbediscono alla lunga anche i progetti più ambiziosi di trasformazione della società. Prima di essere indicazioni di atteggiamenti da assumere, le beatitudini sono asserzioni che dicono un’identità paradossale. E chi le pronuncia ha l’autorevolezza indiscutibile del Maestro. Sono la verità che suona liberante per quanti la vita ha reso insignificanti, la considerazione sociale tonti, le forze dominanti oppressi. In questa luce l’utopia non si configura più come il sogno che svanisce appena ci si svegli alla dura realtà. Si configura piuttosto come esito di una proclamazione performativa, che intercetta il desiderio che nessuna potenza mortifera riesce a soffocare. Far risuonare nella città le beatitudini vuol dire introdurre una critica radicale che sconfessa gli spiriti cinici, uno stimolo che fa rinascere fiducia negli emarginati, una forza che rinvigorisce l’impegno di tante persone generose.
La tentazione di ritenere che tutto ciò valga solo per i cristiani appare negazione dell’utopia che alberga nel fondo di tutti, e che ha bisogno di trovare ragioni per non appannarsi, di ascoltare parole capaci di dire l’impossibile, di avvertire che nella storia resta viva la figura di un Maestro controcorrente perché viene da altrove. E la dura realtà non continuerà ad opporre resistenza al desiderio che si ridesta? Non risulterà ancora una volta vincitrice fino a bloccare in gola ogni anelito a una città diversa? Non costringerà a ripetere che i prepotenti avranno sempre ragione, che non ci sarà alcuna consolazione per le afflizioni, che la pace non si raggiungerà mai, che la misericordia risulterà stupida illusione, che il Regno dei cieli si rivelerà l’alienazione per eccellenza? Se però questo è l’orizzonte che si delinea, perché continuare a lamentarsi? Perché non rassegnarsi ai conflitti? Perché non trasformare la città in luogo di violenza e di vendetta? Perché non cancellare dal frontone di palazzo Loggia la scritta Brixia fidelis fidei et justitiae? E che cosa ci resterebbe alla fine se non ceneri sulle quali non avremmo più neppure un poeta in grado di dire una parola? Fortunatamente le beatitudini sono un argine saldo contro gli scenari apocalittici allusivamente richiamati. E lo sono perché il Maestro sapeva che cosa sta nel cuore delle persone umane.