Livatino beato perché credibile
Giulio Scarpati, volto noto del teatro e della televisione italiana, è tra quelli che non sono rimasti sorpresi dalla notizia giunta appena prima di Natale, del via libera di papa Francesco alla beatificazione di Rosario Livatino, il giudice siciliano brutalmente ucciso, non ancora trentottenne, dalla mafia il 21 settembre 1990. Il Papa ha riconosciuto il martirio in “odium fidei” di un uomo, che è un esempio “non soltanto per i magistrati – sono state le parole del Pontefice – ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni”. Scarpati conosce bene la figura del prossimo beato perché nel 1993, a pochissimi anni del brutale agguato in cui trovò la morte, lo aveva interpretato nel film “Il giudice ragazzino” di Alessandro Di Robilant. Per interpretare quel ruolo Scarpati ha studiato a fondo la figura del giudice, le sue carte; ha ascoltato quelli che furono i suoi colleghi; ha incontrato i genitori. Questo lavoro non solo gli ha permesso di portare credibilmente sullo schermo il giudice nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, ma gli ha anche dato la possibilità di conoscerlo nel profondo, di prendere coscienza della sua statura di uomo prima ancora che di magistrato; gli ha fornito tutti quegli elementi che oggi gli fanno dire di non essere particolarmente sorpreso della notizia della beatificazione. Questo e altri aspetti legati alla figura del giudice siciliano sono stati toccati da Giulio Scarpati in un’intervista realizzata nei giorni scorsi.
Si aspettava che Livatino sarebbe arrivato agli onori degli altari?
Sì, perché Rosario Livatino era un uomo giusto. Per lui quello che era importante non era l’apparenza, l’aspetto esteriore, ma l’essenzialità delle cose. Era una persona che esercitava su se stesso prima che sugli altri una grande critica, prima di pretenderlo dagli altri chiedeva a se stesso, uomo e giudice, un grande rigore. “Quando moriremo – è una frase che ho trovato tra i suoi scritti – non ci verrà chiesto quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”. Credo che come uomo, magistrato e credente abbia tenuto fede sino in fondo a questa sua convinzione e per questo la bella notizia della sua prossima beatificazione non mi ha colto di sorpresa. In qualche modo era un qualcosa di atteso sin dagli anni in cui mi sono accostato alla sua figura per portarla sullo schermo.
Come si preparò per quel ruolo?
Ebbi la fortuna non solo di potere accedere alle sue carte, ai suoi scritti, ma anche di incontrare chi con lui aveva percorso un tratto di strada, i suoi colleghi magistrati. Ebbi modo di incontrare i suoi genitori, due figure straordinarie, che seppero vivere con grande compostezza la perdita del loro figlio unico. Ho così avuto modo di entrare in contatto con una persona che, per ambienti come quelli mafiosi, era pericoloso, da eliminare, come poi è avvenuto. Rosario Livatino oltretutto era anche sorretto anche da una grande fede che gli permetteva di concepire il suo ruolo di giudice non come colui che commina un a pena come vendetta per un reato, ma come occasione per una sorta di riabilitazione.
Si può dire che abbia anticipato quell’immagine di Chiesa che si china sull’uomo per curarne le ferite, tanto cara a papa Francesco?
Sì, e credo che stia proprio in questo la grandezza di Livatino, la sua grande coerenza e la capacità di vivere il suo essere cristiano nella vita di tutti i giorni, nell’attività difficile di magistrato che comunque è chiamato a curare le ferite dell’ingiustizia. Credo che Livatino abbia fatto della coerenza in quello in cui credeva lo stile della sua vita e credo che questo sia l’aspetto che più lo avvicina a quello che papa Francesco sin dal giorno della sua elezione va dicendo.
Quali degli insegnamenti di Livatino vanno valorizzati perché non sia ridotto a semplice nome di santo da calendario?
Sicuramente l’impegno per essere credibili, che dà senso a qualunque scelta si faccia, ricordando che, come diceva Livatino, non saremo ricordati per quanto siamo stati credenti, ma per quanto siamo stati credibili.