"Chiamatemi Francesco", il film dedicato al Papa: dal 3 dicembre al cinema
Esce nelle Sale questo 3 dicembre il film dedicato a Jorge Mario Bergoglio di Daniele Lucchetti
L’Acec Brescia e l’Ufficio per le Comunicazioni Sociali, in collaborazione con la Sala San Filippo di Collebeato, propone una proiezione riservata al clero, ai religiosi e alle religiose della Diocesi sabato 5 dicembre alle ore 10.30.
Ecco le Sale della Comunità che dal 3 dicembre ospiteranno il film: Bagnolo Mella, Pio XI; Bienno, Oratorio; Collebeato, S. Filippo Neri; Edolo, S. Giovanni Bosco; Esine, Eden; Ghedi, Il Gabbiano; Lumezzane S. Apollonio, Astra; Manerbio, Politeama; Montichiari, Gloria; Ome, S. Stefano; Ostiano, Don Rosa; Palazzolo Sull’Oglio, Aurora; Pavone Del Mella, Aurora; Ponte Caffaro, Aurora; Salò, Cristal; Villanuova Sul Clisi, Corallo.
Per ulteriori informazioni consulta il sito dell'Acec Brescia.
"Jorge era un uomo preoccupato”. “Jorge ha sorriso per la prima volta quando lo abbiamo visto diventare Papa”. Da dichiarazioni come queste, rese da persone che conoscono bene Papa Bergoglio, è partito il regista Daniele Luchetti per ricostruire la storia del Pontefice venuto quasi dalla fine del mondo, prima del 13 marzo 2013: una storia che è al centro del film “Chiamatemi Francesco”, che uscirà al cinema dal 3 dicembre.
Prima di girare il film qual era l’aspetto che le piaceva di più di Bergoglio e ora, dopo aver ascoltato tante testimonianze in Argentina, quale idea si è fatto?
All’inizio mi colpiva questa capacità di andare dritto al centro delle cose, come quando ha detto: ‘Chi sono io per giudicare la persona omosessuale?’. La sua capacità di andare al cuore di un problema in maniera così precisa è come una freccia che si conficca nel cuore. Mi colpisce anche il suo coraggio: è stato ed è anche ora un uomo così coraggioso.
Nel film Bergoglio appare certamente un uomo di grande azione, forse meno di spiritualità…
Io ho descritto la parte visibile di Bergoglio, che un po’ tutti mi hanno raccontato: era un gesuita dinamico, che passava all’azione anche con una certa capacità di scegliere la cosa giusta. C’è una dimensione spirituale molto forte, alla quale non mi sono accostato anche per rispetto. Io non sono credente: preferisco credere nelle cose che vedo. Ho scelto di rimanere sul Bergoglio più ‘politico’ perché sicuramente era quello più visibile. Orson Welles diceva che non si possono filmare le persone che fanno l’amore e le persone che pregano. E se non ci riusciva un maestro come lui….
Lei ha scelto di spiegare quello che è oggi Francesco raccontando il giovane Bergoglio: perché?
“Mi sembrava interessante spiegarmi perché questo personaggio oggi è così e attraverso quali strade ipotetiche è passato. Il momento della gioventù mi è sembrato interessante perché c’era chi ci raccontava di questo giovane preoccupato e con una certa baldanza. A soli 37 anni diventa provinciale dei gesuiti, poi lo perde questo incarico e comincia un po’ daccapo. Trovo affascinante anche il suo fare un passo indietro rispetto a questa baldanza, tornare sulla preghiera. Visto che non volevo rappresentare la preghiera, ho raccontato la messa in opera della preghiera, che è anche l’assistenza ai poveri”.
Nel film si dà più spazio al Bergoglio all’epoca della dittatura che a quello tra i poveri, però su quello che Francesco è oggi ha inciso non solo l’inferno del regime di Videla, ma anche l’impegno per gli ultimi. Allora, perché questa scelta?
Il lavoro a favore dei poveri è qualcosa che conosciamo già e ce lo possiamo immaginare facilmente. Quando si fa un film si cerca di dare più spazio a quello che gli altri non sanno. Ed è questo il motivo per cui ho deciso di non raccontare il giorno dopo l’elezione al pontificato, perché quello è sotto gli occhi di tutti. Più ci avviciniamo all’oggi, più sono stato asciutto nel racconto.
Lei ha detto di aver voluto evitare di fare del Papa un santino: in questo senso, però, non sono tanto convincenti le immagini del pre-conclave, ad esempio la scena di Bergoglio che lava e stende una maglia con Roma sullo sfondo…
Un po’ sdolcinato? Devo essere onesto fino in fondo: all’inizio del film abbiamo voluto dare qualcosa che il pubblico si aspetta, per aiutare a entrare dentro la storia con più dolcezza.
Lei è un non credente: è stato difficile raccontare un uomo che ha speso e tuttora spende la sua vita per amore di Cristo e dei fratelli?
È stata un’esperienza entusiasmante.Dopo questo film credo di più alla gente che crede. Mi sono messo con tutte le mie forze dalla parte di Bergoglio; provo una certa ‘invidia’ per le persone che sono consolate dal dono della fede. In Italia pensiamo di conoscere il cristianesimo perché ogni pietra delle nostre città parla di questo. Io appartengo alla terza generazione di non credenti nella mia famiglia. Forse sono stato anche sfortunato, in questo senso. Ho parlato con Eugenio Scalfari, che mi ha raccontato di aver detto al Papa: ‘Vedrai che alla fine mi converti’. E lui avrebbe risposto al giornalista: ‘Non ho intenzione di convertirti perché grazie a te ho un amico non credente con cui conversare; se ti converti, ne devo trovare un altro'”.
Come reagirebbe se un giorno ricevesse una telefonata e dall’altro capo una voce le dicesse: “Sono Francesco”?
“Sarebbe un’emozione enorme, resterei muto e in attesa. Quando ero a girare in Argentina, è successo almeno due o tre volte che le persone con cui parlavo – alcuni monsignori in curia o il prete delle villas miserias – ricevessero telefonate da lui. Noi non ci pensiamo, ma quando un cardinale viene eletto Papa, amici, parenti, collaboratori non lo vedranno più, se non in qualche occasione. Non succede in nessuna famiglia al mondo un fatto del genere, si perde la quotidianità. Ho potuto riscontrare in Argentina la gioia di chi l’ha visto diventare Papa, ma anche il dolore del non vederlo tornare indietro”.
A che tipo di pubblico si rivolge questo film?
“A un vasto pubblico. Anche la scelta di mettere una voce fuori campo, che va verso il pubblico in maniera un po’ convenzionale, nasce dalla volontà di rivolgermi a un pubblico largo, che non conosce la storia dell’Argentina.
Mi piacerebbe che questo film fosse considerato come un grande racconto popolare.
Quando poi si narra la storia di un giovane che ha un sogno e che alla fine della sua vita, dopo mille prove e inferni attraverso i quali passa, riesce a fare quello che desiderava da ragazzo, ma dalla posizione più alta possibile, è un bell’incoraggiamento a credere in se stessi e in idee di alto profilo e positive”.
GIGLIOLA ALFARO (SIR)
04 dic 2015 00:00