Ungheria. Orban scivola sul referendum
Il referendum voluto dal premier ungherese non raggiunge il quorum. Ma resta diffuso nel Paese un forte sentimento euroscettico e anti-migranti. Un voto popolare che sarà comunque cavalcato dal leader di Fidesz, nonostante le opposizioni ne chiedano le dimissioni. E torna, su scala Ue, il dibattito sul futuro della "casa comune"
Chissà se il premier ungherese Viktor Orban ha mai guardato dritto negli occhi un migrante africano o mediorientale, giunto stremato sulle coste europee, portando sulla sua pelle i segni della fame o della violenza oppure della guerra. Uno di quei rifugiati che oggettivamente costituiscono un problema – inutile negarlo – per i Paesi di approdo, e che l’Europa non vuole accogliere con un minimo di spirito di solidarietà. Quei ragazzi, donne, uomini in fuga che Italia e Grecia, loro malgrado, cercano di ospitare, tra disorganizzazione e malumori diffusi, perché così vuole il diritto internazionale e così invoca un minimo di umanità…
Orban ha voluto il referendum contro l’accoglienza dei migranti per preservare la “purezza” identitaria e religiosa (ha persino citato il cristianesimo) del suo Paese.
Gli elettori dovevano rispondere a un quesito inequivocabile: “Volete che l’Ue, senza l’autorizzazione del Parlamento, possa imporre l’insediamento obbligatorio di cittadini stranieri in Ungheria?”. Ovvero (e trascurando il fatto di aver liberamente aderito al Trattato Ue dopo il crollo della Cortina di ferro) chi comanda in Ungheria, l’Europa o gli ungheresi? Il referendum ha riservato una sgradita sorpresa al premier: solo il 43% degli elettori (poco più di 3 milioni su 8 milioni di aventi diritto) si è recato ai seggi, invalidando la consultazione che richiedeva la maggioranza assoluta dei partecipanti per essere legalmente valida. Fra chi ha espresso il voto, oltre il 90% ha risposto “no”, e su questo aspetto fa ora leva Orban per ribadire che i magiari non vogliono stranieri per casa e che l’Ue non può imporre alcunché a Budapest.
Sul piano interno Orban ritiene comunque rafforzata la sua linea eurocontraria e nazionalista. Le opposizioni, che avevano sostenuto la diserzione delle urne, si sentono però galvanizzate e chiedono le dimissioni del governo, così come sollecita la destra ultranazionalista di Jobbik. Di certo Orban non lascerà il suo posto: ha buon gioco ad affermare che la gran parte degli ungheresi “la pensa come il governo”: ovvero che i migranti sarebbero un costo per le tasche dei cittadini e porterebbero con loro avamposti del terrorismo e religioni “estranee” al Paese. Dunque restino a casa loro. La “soluzione” alternativa, secondo Orban, è che i migranti stiano in Italia e Grecia: la “solidarietà”, storico pilastro della casa comune europea, può attendere. Dei 160mila rifugiati giunti nei Paesi mediterranei da ricollocare nell’Unione europea, ne sono partiti circa 5mila; la Commissione ne avrebbe voluti assegnare 1.294 all’Ungheria, ma Budapest ha semplicemente sbarrato le porte.
Se si considerano scenari più ampi, il referendum voluto da Orban richiama altri referendum. Nel Regno Unito il premier David Cameron aveva fortemente voluto il voto sul Brexit sicuro di vincerlo, mantenendo il suo Paese nell’Ue pur rinegoziando gli obblighi di Londra. Persa la sfida, Cameron si è dovuto dimettere, finendo nel retrobottega della Storia. E nel giorno in cui si votava in Ungheria, arrivava dalla Colombia il “no”, sempre per via referendaria, al recente e atteso piano di pace governo-Farc: a conferma che i governi spesso procedono da una parte e gli elettori dall’altra.
All’indomani del voto in Ungheria, si consolidano però almeno due certezze e si dischiudono due interrogativi. La prima certezza è che, referendum o meno, la questione dell’accoglienza dei migranti non può essere ignorata né svicolata.
Va affrontata in tutta la sua gravità e nelle pieghe della sua concretezza. I muri, è dimostrato, non frenano i popoli in movimento. Si tratta semmai di cercare risposte condivise su scala europea – e l’Ue sembra, nonostante tutto, l’unico livello possibile per farlo – che si facciano carico di vite umane alla deriva, senza venir meno al dovere di salvaguardare diritti e sicurezza dei cittadini Ue.
La seconda certezza è che il populismo e l’antieuropeismo cavalcati da diversi governanti e partiti europei – e alimentati sul triplice fronte migrazioni, crisi economica, terrorismo – non arretrano di un passo. La via per diluire le paure di cui sono preda centinaia di milioni di europei è quella delle risposte concrete benché complesse, lungimiranti, risolutive della politica. Nessuno ha la bacchetta magica per trovare soluzioni: tanto meno i tuonanti leader della destra populista che si vanno consolidando in ogni angolo del continente.
Tra i due interrogativi il primo riguarda il futuro politico dell’Ungheria: Orban proverà una conciliazione interna e un minimo di avvicinamento alle posizioni di Bruxelles oppure irrigidirà ulteriormente la sua politica, prendendo la via di Putin o di Erdogan? E per parte sua – secondo versante aperto – l’Europa dei popoli e degli Stati assegnerà ulteriore simpatia ai leader estremisti oppure saprà tornare alla ragionevolezza delle risposte mediate, magari sofferte, ma veramente risolutive delle sfide in atto?
L’Europa comunitaria quale atteggiamento terrà al suo interno? Proseguirà sulla via della rischiosa disgregazione, oppure serrerà i ranghi nel segno dell’“unione fa la forza”? Perché se è vero che a est si chiede un sacrosanto rispetto per le “diversità” nazionali, a nord e a ovest, e persino a sud, cresce l’insofferenza verso quei governi antieuropei – l’esempio sempre più citato a Bruxelles e Strasburgo è la Polonia – che però spremono l’Ue attraverso i fondi strutturali.
Certezze e quesiti sembrano marciare su binari paralleli: ma in realtà occorre comprendere che il percorso è lo stesso e riguarda tutti indistintamente.